Una stanza buia, sfumature di luce blu, si distinguono le sagome di poche altre persone, "Ventriloquizzing" comincia, lo stempiato David Best sussurra mentre la metropoli elettronica prende vita alle sue spalle. David Best, sì, inglese, ed oltre alle sue corde vocali ed alla sua chitarra ci sono anche i sintetizzatori del socio fondatore Steve Lewis, il basso di Matt Hainsby e la batteria di Lee Adams. Quattro e non due, inglesi di Brighton e non giapponesi. Dopo aver fatto la loro entrata silenziosa nel mondo discografico nel 2003 con "Electro Karaoke In The Negative Style", dopo aver incuriosito le platee impasticcate nel 2006 con "Transparent Things" ed essersi confermati nel 2008 con "Lightbulbs" arriva il momento, nel 2011, di affidarsi alla parziale produzione esterna di Thom Monahan (Vetiver, Au Revoir Simone, Papercuts, ecc.) e sfornare un disco dalla copertina azzurra e psichedelica.
In "Ventriloquizzing" i Fujiya & Miyagi si copiano, si autocelebrano, ripropongono la stessa formula dei tre dischi precedenti ma il risultato è più massiccio, compatto, scava più a fondo. L'acido emerso in copertina diventa più forte non appena la musica comincia, l'apertura affidata alla title-track dipinge con elettrotinte color blu notte tutte e quattro le pareti, il soffitto, il pavimento e le tapparelle abbassate. Che non vi venga in mente di ascoltarlo fuori all'aperto, questo è un disco da ascoltare dentro, chiusi, sigillati. "Sixteen Shades Of Black And Blue" riassume lo spirito dell'album, Best non ne vuole sapere di mostrare la voce e sussurra sempre, parla nell'orecchio in tono confidenziale e ci pensa il contorno cupo e claustrofobico ad alzare il volume, una sintesi del contrasto caratteristico dell'anima del Krautrock fra il buio di fondo e i colori forti di contorno, Best che non ha mai nascosto le influenze dei Can, Neu!, Kraftwerk e compagnia fin dagli esordi. E' in brani come la successiva "Cat Got Your Tongue" o "Pills" che emerge tutto il minimalismo che caratterizza, da sempre, la musica dei Fujiya & Miyagi, l'aridità del cantato e la secchezza delle melodie, colpi di plettro essenziali sulle corde, palpitazioni elettroniche come strumenti di una sala operatoria, batteria che fa venir sete. Più interessanti "Taiwanese Root" dai condimenti di piano elettrico, "Yoyo" ipnotica quanto basta con quella melodia che va su e giù, come uno yo-yo appunto, e "Minestrone" su cui anche l'Hammond - o qualcosa che lo scimmiotta molto bene - si ritaglia un buon ruolo, mentre la conclusiva "Universe" arriva forse troppo tardi, quando la noia ha già preso il sopravvento. Perchè i Fujiya & Miyagi alla lunga risultano noiosi. "Universe" però apre dei mondi fra cori spettrali e atmosfere oniriche e gelide alla "Blade Runner", il pezzo ha uno sviluppo crescente che mischia tutte le buone ragioni che dovrebbero far risultare interessanti i quattro silenziosi nerd inglesi, alla fine ti lascia appagato e quasi ti fa venir voglia di riascoltare tutto dall'inizio. Ma sarebbe eccessivo, meglio ricordare "Ventriloquizzing" dopo un ascolto solo.
Il nome della band deriva dall'accostamento del maestro di Karate Kid (Miyagi) e una marca di registratori (Fujiya) il che già di per sè è interessante, ma lo stesso David Best si è detto annoiato di discutere continuamente su questo. Molto meglio dal vivo, comunque.
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