Chiunque abbia a cuore il futuro dell'Italia sa, necessariamente, come esso non passi solamente attraverso l'efficace attività governativa della attuale maggioranza moderata, ma anche attraverso un rinnovamento dell'identità di una sinistra finalmente capace di porsi come alternativa credibile rispetto al modello ideologico e valoriale incarnato dal Popolo della Libertà, attraverso una sintesi che sappia parlare alla mente ed al cuore di tutti gli elettori.
Non v'è dubbio che, nel corso degli ultimi decenni, soprattutto dopo la caduta del Muro di Berlino ed il trapasso da PCI a PDS, DS, Ulivo, PD etc., la colpa principale della sinistra italiana sia stata quella di non aver riflettuto innanzitutto su se stessa e sulla propria identità, trovando occasionale, e mai duratura, compattezza solamente a fronte di un nemico esterno e fattore aggregante come Silvio Berlusconi.
Mi si passi - con rispetto scrivendo - il paragone: a tratti la sinistra m'è sembrata, in questi anni, come un gregge tutto preso a pascolare per i propri prati, vagando disordinato e senza prospettive, che tutto d'un tratto s'è ricompattato all'apparire di un lupo nero più o meno immaginario (Berlusconi appunto: talvolta descritto come nemico proprio per compiere una funzione che mai la natura della sinistra avrebbe prodotto) affidandosi dunque ad un buon pastore che menasse le greggi al recinto per conservarle nella loro identità di gruppo.
Buon pastore che, nella fattispecie, doveva essere necessariamente un buon samaritano, vuoi di matrice democristiana o comunque cattolica come un Prodi, o solidarista alla Veltroni, ovvero una sorta di traghettatore al quale non si chiedeva di trasformare gli agnelli in leoni - come il Robin Hood di Ridley Scott - ma semplicemente di mantenere il gregge in vita: detto in altri termini, di avviare politiche conservatrici a tutela dei titolari di un reddito fisso, come impiegati statali, salariati, pensionati, lavoratori sindacalizzati, riproducendo una sorta di neocorporativismo teso a proseguire con altri mezzi, e sotto le spoglie di quello che fu lo Stato sociale italiano, le politiche di prudente immobilismo di una sinistra che mai, nella storia italiana, si è assunta la responsabilità di guidare un autentico e maturo cambiamento. E non a caso, quando il buon pastore cercava di uscire da questo recinto, menando almeno le greggi a pascoli moderni ed europei (come con Prodi), alcuni dei mufloni da cachemire più autorevoli preferivano tornare liberi nei pascoli esposti al perenne agguato del lupo, come avvenuto nel '98 e nel ‘06.
Nei prossimi mesi mi propongo di verificare l'esistenza di risposte a questi interrogativi, e le possibili vie d'uscita dalle secche in cui la sinistra italiana mi sembra incappata, grosso modo, dai tempi dell'Unità d'Italia ad oggi, individuando quelli che sono i modelli possibili di sviluppo di questa parte politica, senza esimermi da qualche critica ed osservazione, anche a beneficio di quegli utenti del sito che, in commenti pubblici e lettere private, hanno a volte criticato un mio eccesso di equilibrio, scambiandolo per paludamento o timore d'esprimere la mia opinione.
Un primo modello di sviluppo, sul quale ci soffermiamo quest'oggi, è ben compendiato, a mio sommesso parre, da questo documentario, in cui il giornalista Fulvio Grimaldi individua nel Sud America di Bolivia, Ecuador, Venezuela e Cuba (quest'ultima è realtà caraibica, a dire il vero) una parte del mondo in cui gli ideali di sinistra non sono stati solo elaborati ad un livello intellettuale - come accaduto nell'Europa di Marx - ma sono stati effettivamente realizzati sotto la spinta dei Governi retti dai vari Morales, Correa, Chavez, Castro oltre che dai loro collaboratori ed epigoni.
Il documentario esamina le situazioni dei quattro paesi considerati e ne descrive l'evoluzione storico-politica entro un tragitto che parte dall'emancipazione dei nativi americani dallo schiavismo imperialista europeo e statunitense, mediante una rivendicazione della propria sovranità rispetto a dominatori esterni e relative economie, e della successiva autonomia nella individuazione dei percorsi di sviluppo politico, sociale ed economico possibile, alternativo sia al modello comunista classico dell'Urss e del Comecon, fallito storicamente, che al modello capitalista Euroamericano.
Il racconto ha caratteri epici ed al contempo moralizzanti, descrivendo una sorta di "guerra di liberazione" del secondo e terzo mondo verso dei conquistatori che hanno calpestato diritti e libertà dei popoli (dei "popoli" più che dei "singoli", si noti) imponendo valori e sistemi politici ad essi estranei, e ritenendo che questa guerra sia, oltre che doverosa, giusta e volta al progresso.
L'approccio alla storia di Grimaldi mi sembra essere dunque fondamentalmente ottimista, ed al contempo imbibito di quel messianesimo travestito da materialismo storico che costituisce, come noto ed alla luce dei miei precedenti saggi, il vero genotipo di ogni ideologia di matrice marxista e sinistrorsa.
Introdurrei a questo punto una novità nel mio metodo, e, venendo incontro alle sollecitazioni dell'utenza del sito più addentro al dibattito politico, comincerei ad enucleare, per punti semplici e comprensibili a tutti, i profili di debolezza degli assunti sottesi al documentario, in maniera tale da instradare il dibattito entro binari abbastanza definiti ed evitare che il tutto trasmodi nei soliti improperi o prese di posizione del tutto apodittiche alle quali abbiamo assistito nel corso degli ultimi mesi, con il rischio di ridurre la mia collaborazione con il sito a sterile oggetto di critica aprioristica.
I profili di debolezza mi sembrano, pertanto, almeno tre, e su di essi auspico un dibattito maturo fra utenti, anche a difesa delle posizioni espresse in questo documentario.
Nell'affermare l'esistenza di un asse del bene come quello Sudamericano e Caraibico, mi sembra sottovalutata la dimensione carismatica e populistica delle leadership politiche considerate, paradossalmente assai più simili al Berlusconi italiano (che pur si muove entro valori moderati), che a forme di democrazia matura come quelle che, primariamente, possiamo scorgere presso i Paesi Scandinavi, come Norvegia, Svezia, Finlandia, ma anche Olanda ed Inghilterra, o, per rimanere nel Continente, in Germania, senza andare negli States o in Canada.
La prospettiva carismatica di questi governanti non mi sembra possa essere sottovalutata, posto che, nell'affermare la loro leadership, i medesimi sembrano sacrificare i valori del confronto dialettico democratico - nell'ambito di libere elezioni come quelle che si tengono nel resto del mondo, e nella stessa Italia ad onta dei critici - introducendo negli ipotetici benefici derivanti per quelle popolazioni dalla promozione del Bene i costi di un regime populista che rischia sempre di prendere la china dell'autoritarismo.
In altri termini, anche ammettendo che un Castro, un Chavez o un Morales vadano al Governo per il bene di tutti, non è così automatico che, in un sistema carismatico e plebiscitario come quello tipico di molti sistemi sudamericani, esistano contrappesi idonei ad evitare i rischi di derive dittatoriali degli stessi leader o di eventuali successori, che, nel medio periodo, potrebbero portare le genti di quelle terre a perdere tutti i benefici guadagnati nel breve.
Si pensi del resto a quanto avvenuto nel vecchio continente negli anni '20 e '30 del secolo scorso, in cui i vari Mussolini, Franco, e Salazar - per non dire di Hitler - si presentarono agli occhi del popolo come liberatori e promotori del bene, con gli esiti che tutti noi conosciamo in quanto insiti nel legame carismatico fra leader e masse, in cui il passaggio da populismo all'autoritarismo ed indi al totalitarismo non è poi cosi arduo.
In secondo luogo, mi sembra problematico proporre come modello esemplare di sviluppo, anche per lo stesso Sudamerica, forme di Governo che fondano necessariamente il proprio primato "rivoluzionario" e controllo del territorio sugli Eserciti e Forze dell'Ordine, che in siffatti contesti, a basso o assente contenuto democratico, potrebbero facilmente agire e in maniera violenta a tutela dell'ordine costituito, anche attraverso forme di detenzione e tortura che, in Sudamerica, si sono già viste come tipiche dei regimi argentini e cileni degli anni '70 ed '80, non a caso fondati sul carisma dei leader militari, a prescindere dalle ideologie politiche praticate in concreto, che, più che di destra o di sinistra, risultavano caratterizzate dalle già segnalate forme di paternalismo ed autoritarismo nei confronti di una società vista come debole e lassa.
Anche questo modello mi sembra difficilmente proponibile in Europa, e soprattutto in Italia, in cui le Forze dell'Ordine e gli Eserciti agiscono da ormai decenni nel pieno rispetto dei valori democratici, ed in cui qualunque sospetta deviazione da metodi di controllo democratico della società vengono stigmatizzati soprattutto dalle stesse forze di sinistra, come avvenuto nelle note vicende del G8 del 2001: in altri termini, sarebbe difficile proporre un modello di sviluppo europeo o italiano fondato su mezzi che la stessa sinistra critica pervicacemente. Detto in sintesi: non è che una polizia che esercita la violenza a L'Avana in nome del comunismo sia ontologicamente migliore di una polizia che, in ipotesi, la esercita nel nome del conservatorismo a Genova (pur con le dovute differenze).
Terzo ed ultimo profilo di debolezza, strutturale, mi sembra attenga alla stessa Idea di Bene che verrebbe veicolata in Sudamerica e proposta come meta tendenziale per tutta la sinistra globale: personalmente, diffido da chi indica un unico e vero Bene da raggiungere, come ideale astratto, ritenendo che una tale dimensione non sia propria degli uomini e della politica, quanto più della Religione (presa sul serio), e che la definizione di ciò che è Bene ed è Male spetti ai grandi leader religiosi, dal Mahatma Gandhi al Dalai Lama o il Papa, che indicheranno le vie per raggiungere il Meglio in una dimensione ultraterrena e non terrena.
A noi umili viventi non resta che un'idea stipulativa, relativa e convenzionale di bene e male, destinata a cambiare in relazione a punti di vista subiettivi, contesto sociale, condizioni personali, e realizzabile unicamente nel quotidiano, mediante azioni politiche concrete, scelte individuali compiute anche a livello professionale, vocazioni di vario genere, sempre e comunque nel rispetto di quelle essenziali forme e garanzie tipiche della democrazia parlamentare, che dai tempi della Rivoluzione francese, certo con limiti e ripensamenti, ci accompagna.
Ecco allora che la ricetta di Bene in salsa sudamericana rischia di essere un po' troppo piccante ed indigesta per i nostri palati (oltre che degli stessi sudamericani, che dovrebbero più spesso passare dal medico per controllare i valori del sangue): altri sono i modelli e le tradizioni a cui la stessa sinistra dovrebbe forse ispirarsi, riscoprendo forse le proprie radici europee dell'età moderna, posto che non solo di Conquistadores spagnoli o portoghesi è fatto il nostro paradigma culturale, né di Comintern della fredda Mosca alle porte della Siberia e delle vastità dell'Oriente, ma anche di liberi pensatori nei quali anche la sinistra dovrebbe finalmente riconoscersi, come già i moderati italiani fanno almeno dal 1994, sulla scia di Erasmo da Rotterdam, Locke, Rousseau tra gli altri.
In conclusione, mi sembra che il modello di sviluppo sudamericano trasformi uno degli incubi ricorrenti della sinistra - un Berlusconi conducadòr - in una delle alternative possibili allo stesso modello berlusconiano, evidenziando già sul piano logico l'esigenza di ripensare il problema in maniera diversa e seguendo rotte a mio avviso diverse da quelle praticate in Sudamerica.
Un modello diverso che, allora sì, potrebbe essere esportato in un Sudamerica cui donare una vera e nuova sinistra, piuttosto che i surrogati su cui si fonda la politica di quei posti.
C'è sicuramente da meditare, ponendoci, da moderati qual siamo, un dubbio: è questa la sinistra di cui c'è bisogno?
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