Ma dov'era finito, quel paranoico-psicolabile di Keiji Haino? Non è dato saperlo: quasi un decennio di silenzio, e di lui si erano ormai perse le tracce. L'avevamo lasciato nel 1981, l'anno di "Watashi Dake", bizzarro esordio solista per voce, chitarra, rumori vari: lunatici frammenti sonori che qualcuno provò a definire "avanguardia". Poi, più nulla: il vuoto, un buco nero in cui il Nostro è di fatto risucchiato, per quasi tutta la durata degli Ottanta. In molti si chiedevano: sarà morto? Avrà lasciato tutto e sarà andato a fare meditazione in Tibet? Oppure, starà lavorando a una qualche stranezza delle sue...?

L'ultima ipotesi, alla fine, si rivelò quella giusta: passano infatti otto anni, e nel 1989 - a spiazzare tutti - esce questo (doppio) album senza titolo: "Fushitsusha", ovvero ciò che si legge sull'inquietate copertina, è l'enigmatica denominazione di un ensemble in realtà nato già da diversi anni, ma mai saggiato su disco. Con Haino sono altri tre svitati del suo livello: il chitarrista Maki Miura, il bassista Yasushi Ozawa, il batterista Jun Kosugi. Musicisti Rock, veterani della scena alternativa giapponese, e già questo farebbe riflettere: siamo lontani dalla casereccia stravaganza dell'Haino solista (e lunatico sperimentatore), quel che si ascolta - per quanto sconvolgente e alienante possa risultare - non è avanguardia. E non è neanche Rock in senso stretto, a dirla tutta (nessuno lo immagina ancora). Ma è qualcosa di sconvolgente, qualcosa di troppo grande e misterioso da poter intuire. Apriamo il disco: otto brani in tutto, otto brani senza nome, otto lunghe litanie elettriche con pochissime variazioni armoniche (se non nessuna, in certi casi). Fumo negli occhi, nient'altro. Vertigine. Nausea. Angoscia. Ma anche sensazioni, colori (cupi, quasi tutti), lampi e immagini nel buio. D'un tratto mi viene alla mente quella "foschia viola" che un chitarrista di Seattle aveva cantato 20 anni prima, e penso: è Lei, sono sicuro, se si potesse pensare quella foschia in musica avrebbe senz'altro i tratti di questo malato suono deforme. Chi ha prodotto questa musica non è un musicista: è un esploratore del cervello, ma prima ancora un pazzo che andrebbe internato quanto prima. Quindi, un Genio. Definizione tranquillamente utilizzabile, quando si parla di Kenji.

Signori ascoltatori, inchinatevi dinanzi a quella che è la Bibbia indiscussa dello Space giapponese, l'Opera Suprema che racchiude in sé, esaltandoli all'ennesima potenza, i Geni creativi di tutti i grandi improvvisatori del passato: ecco Hendrix, Nume tutelare dell'intero album, il cui fantasma aleggia ovunque; ecco i Dead di "Dark Star", torbidi, gelidi, notturni; ecco gli Amon Duul II di "Yeti", sanguigni, feroci, apocalittici; ecco l'ancestrale bestialità dei primi "krauti", ecco le loro chilometriche, deliranti cavalcate strumentali, autostrade per l'infinito. Ecco i Velvet, ecco le loro ipnotiche disperate cantilene, ecco la solitudine del Tim Buckley di "Lorca", ecco ancora gli Hawkwind e gli Ufo e, se si vuole, la Flower Travellin' Band. Tutto in questo album senza nome, che qualcuno ha avuto l'idea di ribattezzare Live I anche se di Live non si tratta (è un po' il senso del "Dal vivo" sulla copertina del primo "Rovescio Della Medaglia", per chi lo ricorda: registrazioni non desunte da un concerto, ma effettuate in studio in presa diretta, senza sovraincisioni). Per un totale di cento minuti di follia, fra sordi lamenti, feedback, distorsioni, arpeggi "spastici" e acidissimi, un'atmosfera generale tremenda, ossessiva, infernale. L'armonica di Haino che introduce il primo, zoppicante "slow-blues" (ma l'espressione non va presa troppo alla lettera) ricorda un'armonica altrettanto celebre e "demoniaca": quella di Ozzy in "The Wizard", mentre i suoi vocalizzi sono rantoli disarticolati resi spaventosi dal riverbero e dalla qualità (non eccelsa) dell'audio; a volte sono prolungati mugugni ad accompagnare la chitarra ululante, a volte urla stridule e acutissime, fino a ferire i timpani.

E' "Psych-Blues" radicale, durissimo, impenetrabile. Impreziosito da assoli di chitarra straordinari, "cosmici" nella loro totale libertà, accecanti, come fasci di luce improvvisa a squarciare il buio. Un crescendo d'intensità sconcertante, un rituale di umori e suoni che ha il suo culmine in una conclusiva Jam di ventisei minuti: rumore e rabbia nella prima parte, irreale sospensione nella seconda, lampi chitarristici di meravigliosa bellezza a chiudere. Tensione altissima per tutta la sua durata, da restare incantati: indescrivibile a parole, è un'emozione purissima. A chiudere un album di difficilissimo ascolto, se mai fosse necessario ribadirlo. 

E' un altro viaggio, questo, molto più estremo ed impervio di quello che a suo tempo vi suggerii con gli Yonin Bayashi, decisamente sconsigliabile ai cultori della tecnica e delle sonorità "pulite" di certo Progressive; molto più indicato per gli amanti del Grunge, del Noise, della sperimentazione e della jam session in tutti i suoi aspetti. E naturalmente, agli hendrixiani di tutte le età: se state cercando un album giapponese che abbia in sé la passione e le suggestioni dei vecchi concerti al Fillmore West, questo fa decisamente al caso vostro. Disponibile anche un secondo "live", anonimo come questo, del 1991: notevole, ma non raggiunge il fascino del primo. E poi c'è la discografia di studio dei Fushitsusha, da integrare eventualmente con la produzione solista di Haino: ma questa è un'altra storia, non ho tempo per raccontarvela...

 

 

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