"Raga" è termine indiano che rimanda ai campi semantici di "colore", "emozione", "sfumatura", "sensazione"; in ambito strettamente musicale, esso è venuto ad indicare il codice espressivo caratteristico della musica colta dell'India del Nord, prevalentemente strumentale e anche nota come "indostana" (viceversa la "carnatica", espressione dei popoli dell'India centro-meridionale, si distingue per l'ampio spazio concesso alle parti corali).

Spinti da marcato (ma non giustificato) etnocentrismo occidentale, svariati musicologi nei decenni appena trascorsi hanno alluso al Raga come ad un semplice sistema scalare, sulla falsariga dei "modi" ereditati dalla musica greco-classica (il lidio, il frigio, il dorico etc.) e riproposti a partire dagli anni '50 in molta improvvisazione di certo Jazz "modale"; tale definizione, se in apparenza semplifica le cose mettendo a disposizione del pubblico concetti d'uso ormai comune in ambito jazzistico, e dunque più facilmente comprensibili, risulta in verità inaccettabile se si ragiona sulla distanza che in musica, ancor più che sulla carta geografica, separa Oriente e Occidente. Ciascun Raga è tale, e si differenzia pertanto da un altro Raga, non in ragione di un peculiare percorso scalare, ma in base alla sua "connotazione umorale": parliamo infatti di una forma di musica popolare tramandata da generazioni, e decisivo era in passato il contesto extra-musicale, festoso o funereo che fosse, in cui l'esecuzione aveva luogo. Vero è che per il Raga è stato elaborato un rigoroso codice notazionale, quello cioè di Pandit Bathkande, largamente ispirato alla nomenclatura anglosassone, ma la gran parte dei musicisti (anche contemporanei) del genere non ne tiene conto se non marginalmente, affidandosi piuttosto a criteri di estemporizzazione dettati dall'umore, dalla situazione e da schemi mentali spesso elaborati "in divenire", senza preliminare organizzazione.

All'inizio dei cruciali anni '60 questo immenso patrimonio di esperienze, garantito e preservato da una tradizione plurisecolare, aveva sorprendentemente iniziato a prendere contatti con certa musica sperimentale occidentale, e ad assumere forme nuove (pur se etnicamente connotate) dalla commistione con il Jazz e il Rock, intesi come linguaggio privilegiato dalla giovane generazione dei musicisti di quegli anni: ed ecco comparire sulla scena una personalità "di frontiera" come Ravi Shankar, futuro idolo della Woodstock Generation ma prima ancora ispiratore di George Harrison e, di riflesso, di molta della musica prodotta dai "Fab Four" da "Rubber Soul" in avanti; ecco che un giovanissimo chitarrista del Southside di Chicago di nome Mike Bloomfield arriva a riempire di suggestioni orientali quella inarrestabile e frenetica cavalcata strumentale che è "East-West" della Butterfield Blues Band; ecco che i Byrds si spostano in breve dal Folk elettrificato dei primi tempi a smisurate "free form" chitarristiche atonali, trascinandosi dietro il resto di una scena californiana più che mai aperta a una filosofia così densa di implicazioni extra-musicali.

Ed è tra i fermenti di questa modernissima temperie musicale che prende forma l'arte di un musicista geniale e ineguagliabile per serietà e rigore, cui tutta la musica da quarant'anni a questa parte deve qualcosa: Gabor Szabo, ungherese di sangue gitano, era in realtà quasi trentenne mentre assisteva agli imprevisti sviluppi di quegli anni, e già da qualche tempo aveva lasciato il suo Paese natale (ove il Jazz, sua musica preferita, era osteggiato dal regime) per trasferirsi negli Stati Uniti e perfezionare a Boston la propria tecnica chitarristica: due album in pochi mesi ("Gypsy '66" e "Spellbinder"), già indicativi di uno stile complesso, personalissimo e non classificabile, sospeso fra passato e presente e comprensivo di sonorità equamente divise fra Europa, Asia e America, espressione di tre mondi che convivono e si confrontano in un mirabile "unicum". Questa è la necessaria premessa concettuale che sta alla base di un tassello storico del livello di "Jazz Raga" (l'anno è il 1966, lo stesso di "Revolver", per intenderci); dal Raga indiano si delinea un originale percorso che arriva al Jazz d'oltreoceano passando per un'indefinita terra di confine che risuona delle vibrazioni dell'Europa più verace, più popolare; dalle sontuose dimore di corte di Nuova Delhi alle metropoli nordamericane, transitando per le torride e steppose distese della "puszta" ungherese d'estate: con, sullo sfondo, l'incessante e ostinato sussurro di una Swinging London sempre più vicina, irremovibile punto di riferimento per i cultori delle "nuove sonorità" (come Szabo, del resto, merita d'essere considerato).

Un disco magnifico, palpitante, sanguigno, dai contenuti e dagli esiti sensazionali; e registrato con la collaborazione di Jazzisti di fama, fra cui Bernard Purdie, geniale batterista (che anni dopo ritroveremo negli Steely Dan) esperto di ritmiche esotiche, ideatore di soluzioni insolite e fantasiose, capace di svariare dalla Samba al Rock al Cool Jazz; in due si alternano invece al basso e al contrabbasso, Johnny Gregg e Rob Bushnell, dopo che per i dischi precedenti Szabo si era fatto accompagnare da Sua Maestà Ron Carter (già alla corte di Miles Davis per larga parte dei Sessanta). Senza soluzione di continuità, e con quella disinvoltura

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