Un pianoforte, un contrabbasso, una batteria e tante, tante storie da raccontare. Storie che parlano di lotta e dell’orgoglio che si prova quando è tangibile l’appartenenza a qualcosa. Storie che parlano di strade interrotte, di sporchi cortei forse corrotti, di fatica vana. Storie che parlano di altre storie, sospese nel tempo e nella memoria popolare, divenute leggende e poi annebbiatesi tra i lacrimogeni della Celere. Storie che partono da lontano, dal 1969, che passano attraverso gli anni di piombo e che giungono a noi sotto nuova guisa, sotto la luce nuova che i fatti accaduti per il G8 di Genova ci restituisce.

Gaetano Liguori ci racconta per mezzo di un jazz nazional-popolare le sue impressioni sul vortice di tensione che non accenna a mitigarsi. Troppi interrogativi che non trovano risposta, troppa ipocrisia, troppe mezze verità celati dietro sorrisi sforzati e quanto mai inappropriati.
Le note del pianoforte trasmettono insicurezza, precarietà, sfiducia. Non sono costrutti particolarmente complicati, anzi al contrario sono nenie e litanie abbastanza orecchiabili. Mi piace pensare che questa sia stata una scelta ponderata dagli autori: il messaggio, per essere recepito, deve godere del mezzo di comunicazione più idoneo a trasmetterlo direttamente nella testa di chi lo riceve.
Ed infatti troviamo un jazz poco articolato, in cui l’improvvisazione non eccede nell’accademia fine a se stessa. Aprite questo romanzo di storie e cominciate a leggere.

Il primo racconto, costruito attorno ad un pedale ossessivo, ripetitivo e nauseante, è lo specchio del contenuto dell’intero libro. Suono particolarmente privo di frequenze alte, per dare l’idea del cielo cupo, brevi rincorse che illustrano gli spostamenti irrazionali delle masse. Stiamo leggendo “Genova G8” e ci apprestiamo a sfogliare “L’uomo che volle farsi Re”. Ora non sta a me indicare a chi sia riferita, ma ogni riferimento NON è puramente casuale. Rudyard Kipling e John Huston vi dicono niente? Arriva “Il Comandante”, passaggi epici e melodrammatici, chiari riferimenti alla figura di Che Guevara. Ho letto in un’intervista che l’autore non voleva riferirsi solo al "Fiero Rivoluzionario" ma anche alle altre grandi figure del socialismo.
“Leggermente Fuori Fuoco” è una canzone “onomatopeica”: il titolo dice tutto. Una particolare attenzione all’assolo di contrabbasso in questa canzone, assolo più che mai slegato, disarmonico, frammentario, quasi stonato ma molto rivoluzionario.

Generalmente lo sviluppo delle canzoni è pedissequo: introduzioni di poche note, sviluppo modale e rientro nella pacatezza. Sono presenti continui momenti di confusione voluta, di agitazione, di ansia generica tesi a catapultarci all’interno di quei cortei, di quelle strade, di quelle lotte.
Tutti uniti sotto la stessa bandiera allora? No, questo no, sarebbe scorretto, anche se profuso da uno che ha esordito discograficamente con un lavoro dal titolo “Cile Libero, Cile Rosso”. Ma c’è un’altra bandiera sotto la quale dovremmo stringerci: è quella dello sconforto e questo si, questo mi pare inevitabile.

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