Ancora stordito dall'ascolto di un disco degli Animal Collective, sentivo il bisogno di riscaldarmi l'anima con qualcosa di intimo, semplice, alla mano. L'occhio cade su Prazision dei Labradford. Ma anche no. Poi vedo l'omonimo dei This Heat. Non ci penso proprio. Inizio ad ascoltare una vocina nella testa che canta: "When you went blind And I nearly lost my mind It didn't last Cause you have another eyeliiiiiiiiiiid". Ma certo, come ho potuto non pensarci prima. La risposta era "This Is Our Music". Questa è la nostra musica. Un titolo commovente nella sua semplicità e schiettezza. Come a dire "Noi non siamo dei geni, facciamo quello che possiamo. Però proviamo a farlo nel migliore dei modi. Speriamo vi piaccia". Certo che ci piacete, siete bellissimi. Umili e bellissimi. Oddio, i cinici dal cuoricino di pietra potrebbero dire che suonano la stessa canzone per tutta la durata del disco. In parte forse hanno anche ragione, ed è proprio per questo che mi sento di lodarli, perchè, nonostante ciò, la tensione emotiva è sempre alta. E personalmente, è questo ciò che conta.
I Galaxie 500 mi sembrano l'archetipo della band sfigata. Nascono e se ne accorgono in pochi. Pubblicano tre dischi in studio, si sciolgono, ognuno per cazzi propri e non se ne accorge nessuno. Un destino che li vede nei ricordi di quattro disgraziati. Ma questo non fa altro che renderli terribilmente fascinosi ai miei occhi. Non tre ragazzi che suonavano malinconia, tre ragazzi che si nutrivano di malinconia. Abulica malinconia, che poi erano costretti ad espellere nei loro lavori per non implodere nel tedio esistenziale. Forse con la mente perennemente protesi verso ciò che poteva essere e poi non è stato, chissà. A parte l'eredità di Cohen e Drake, il loro debito nei confonti dei Velvet Underground minori è palese, basti ricordare una "Jesus" od una "Candy Says" per accorgersene. E basti appellarsi ad una "Here She Comes Now" (e confrontarla con la cover della stessa che troverete qui) o ad una "Lady Godiva's Operation" per notare che l'aspetto paranoico e nevrotico della band di Reed viene quasi totalmente a mancare nelle languide Galassie. Sarebbe futile una descrizione dei singoli pezzi, lo stato d'animo della band è il medesimo per tutto il lavoro. Forse solo Fourth of July, la traccia che apre le nostalgiche danze, prova a rendere l'atmosfera più "sbarazzina" (mi perdonino Wareham ed ex-soci), con quella tenera cavalcata di chitarra iniziale che quasi si affanna a rincorrere i fantasmi di un passato che non ne vuol sapere di fottersi. O magari tenta di scacciare quelli che già intravede nell'immediato futuro. Vi basti sapere che ascoltare questo disco è un pò come tagliarsi la gola col coltello unto di miele.
Tre ragazzi scarsamente ambiziosi, mediamente amati, altamente emozionanti.
Animal Collective cari, sarà per la prossima volta. O per la prossima vita.
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