Ci sono tante cose sulle quali non posso dare la mia parola, ma ce n'è una su cui posso garantire: non dimentico. E fra Quelli che davvero non possono essere dimenticati (la maiuscola è tutt'altro che un semplice vezzo) c'è un Signore della Musica che si chiamava Scott Miller, e che dal 15 aprile di quest'anno non c'è più. La cosa che più mi rattrista è il fatto d'averlo saputo per totale casualità, a distanza di diversi mesi e mentre cercavo informazioni su quella che avrebbe dovuto essere la sua seconda (o terza, piuttosto...?) giovinezza artistica di una Carriera meravigliosa e mai adeguatamente premiata. Nemmeno due settimane dopo aver spento la sua 53esima candelina. Più ci penso, e più mi sento male.

Questa pagina non vuole essere una commemorazione, ma qualche parola (solo?) da spendere su un Personaggio di questa portata è il minimo che io possa fare - nei limiti di una pagina. Era un Genio, Scott Miller. Uno dei tanti Genii che gli ALTRI anni '80, quelli della nuova musica alternativa americana, hanno portato alla ribalta; eppure unico, anche in mezzo agli esponenti di una generazione che ha riportato il Rock a livelli d'inenarrabile splendore, e che si chiamano Steve Wynn, Guy Kyser, Dan Stuart, Sid Griffin, David Roback, Matt Piucci, Michael Quercio, Van Christian... più o meno tutti accomunati sotto un'etichetta che negli anni abbiamo imparato a riconoscere e ad utilizzare, spesso - anzi, quasi sempre - non tenendo conto della sua estrema convenzionalità: Paisley Underground. In quella varietà, mi vien da dire e il termine non è casuale, CALEIDOSCOPICA di attitudini e influenze sonore, c'era un comune impulso di recupero dei sixties - dal jangle chitarristico dei patriarchi Byrds al tribalismo del primo garage alla psichedelia più visionaria. I Game Theory di Scott Miller incarnavano l'anima power-pop di quella California che ritrovava il suo stesso spirito di vent'anni prima, ora rinvigorito dal post-punk e dall'urgenza d'esprimersi dei ventenni della prima metà del decennio.

Manifesto dell'artigianato Pop  più sopraffino, la "teoria dei giochi" era soprattutto la teoria della composizione della rock-song ideale, condensata in 2/3 minuti di perfezione assoluta. Scott era il deus ex machina di questo genere d'approccio compositivo, che non riuscirei a riassumer meglio delle sue stesse parole; quelle di una dichiarazione celebre che m'ha costretto a farmi parecchie domande sui reali confini della psiche umana: "Ho la musica che suona nella mente tutto il tempo, le idee mi arrivano in un flusso costante, e certo non sono tutte BUONE, come idee... ma quando queste arrivano, comincio a svilupparle e non le abbandono finché non prendono la forma di una canzone". Il fatto di essere anche un grande critico musicale gli permetteva di avere una consapevolezza e un dominio assoluti delle sue idee, che riusciva a concretizzare - facendone suoni e parole - con una facilità irrisoria, imbarazzante. Il modo in cui i Game Theory, fra l'82 e l'88, hanno sfornato materiale a getto continuo e in perenne crescita qualitativa, con picchi assoluti nel triennio '85/'87, riflette questa esplosione creativa che Scott - Talento precoce ma paurosamente maturo - riuscì a governare con l'autorità di un Maestro.

Ancor prima del masterpiece assoluto "Lolita Nation", "The Big Shot Chronicles" è il disco che rivela la grandezza di Miller - il quale, giova ricordarlo, si trovò a dover fronteggiare lo sfaldamento della band dopo "Real Nightime" e a riformarla con una nuova line-up a quattro, in cui il sound tastieristico di Shelley LaFreniere diventò caratterizzante al pari della chitarra del leader - a metà fra quadri acustici da sogno e travolgenti anthems di power-pop del più cristallino e sensazionale, con strutture vocali e architetture armoniche che, a tutt'oggi, nessuno nel genere ha più potuto eguagliare. Beninteso, con la produzione di un certo Mitch Easter, mica l'ultimo arrivato: uno che aveva lavorato coi R.E.M. per "Murmur", non so se mi spiego. Ma a confronto di quest'opera datata-1986, "Murmur" - e perdonatemi - non può non apparirmi come un bell'acquerello di fronte a un affresco murale di proporzioni sconcertanti.

La mia mente di musicista dilettante si sconvolse all'ascolto di questo gioiello del catalogo Enigma: cambi d'accordo in quantità, arrangiamenti che trascinano e ti costringono ad arrivare alla fine tutto d'un fiato, ricerca della perfezione melodica che non è semplice ricerca di un refrain orecchiabile. "Erica's Word" è un monumento alla filosofia milleriana: Canzone straordinaria, di quelle che ai più fortunati verrebbero una volta nella vita ma che al 90% degli autori non verrebbero affatto, musica che si stampa nella memoria e non se ne va, assolo di chitarra che toglie il respiro per la bellezza. E cosa dire di una "Regenisraen" acustica e superlativa, avvolgente come la più riuscita delle "Tangerine" di questo mondo, da lasciare attoniti sulle parti corali e sui passaggi di tono...? Nemmeno si può parlare di "artigianato" Pop, in questi casi, piuttosto di alta ingegneria. 

In una partita con la Musica, specie quando il confronto è con una Mente di livello simile, le parole perderebbero sempre e comunque: e allora sì, ammetto di essere incapace di rendere con le parole l'inizio di "Here It Is Tomorrow", ma lo stesso vale per "Where You Going Northern", un castello di carte costruito con pazienza certosina dalla base fino al vertice, in un equilibrio di melodia e rock d'autore (fra Alex Chilton e Roger McGuinn) che ha del trascendentale... "I've Tried Subtlety" mi ricorda il Tom Petty dei primi Heartbreakers elevato a livelli irraggiungibili per il diretto interessato, mentre quelle tastiere "progressive" (ascoltate bene "Crash Into June") mi richiamano i miei amatissimi Last. Le chitarre "noisy", in pieno spirito-Paisley/College, non possono mancare e "Make Any Vows" lo ribadisce, ma c'è anche una psichedelia più delicata, vicina al lato più dolce dei Green On Red di "Gravity Talks" ("Too Closely"). E' solo una selezione dei miei pezzi preferiti, parziale appunto per lasciarvi scoprire con le vostre orecchie - nel momento irripetibile del primo ascolto, se mai per qualcuno lo sarà - tutta la grandezza che una sola recensione non può abbracciare.

Scott Miller ha dato infinitamente più di quanto abbia ricevuto in cambio. Se ne va in un silenzio quasi irreale. Ma come dissi a suo tempo per Kevin Ayers, almeno per me non sarà mai un addio.

Ciao, eterno ragazzo.

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