Galeotto fu il manuale esoterico, una cosa tipo “underrated masterpieces”.

Poi la definizione trovata girando per l'internet: “understated post-electronic type of lo-fi urban folk”...

Tutta roba da acquolina in bocca...

La copertina, con quel grigio consumato della foto (un consumarsi che da lontano sembra neve) e quelle facce un po così, dice già tutto... e pure il titolo non scherza.

E comunque siamo nei primi ottanta.

E allora ecco a voi: Gareth Williams, ovvero colui che stava nei This Heat e Mary, una misteriosa fanciulla dal bel sorriso di Gioconda.

Immaginate: un'innocenza melodica avvolta dalla nebbia; qualcosa di trattenuto e sospeso; ballate ghiaccio/fuoco con suoni claudicanti e come in sordina.

E ancora: il fantasma dell'infanzia rinchiuso nella stanza dei giochi; l'orrendo gelo adulto che inchioda il reale al reale...

Poi mettete insieme il Robert Wyatt più lunare, il Brian Eno più scombiccherato, i maghetti Moebius e Rodelius, le lucertole volanti di David Cunningham.

Aggiungete l'essenzialità di certo post punk e un super affascinante ibrido tra buffoneria e misticismo.

Otterrete allora un disco che nonostante cotanti riferimenti ha tuttavia un sapore unico che in fondo non so dirvi anche se so che è l'ennesima variante di quella specie di tristezza non triste che piace tanto a noi smandrappati.

Non solo, vien snocciolata anche una specie di saggezza. Eccovene un esempio: “il mio corpo guarda avanti, la mia mente irrequieta corre indietro, come uno stendardo che si agita nella brezza devo lavorare per tenermi stretto” (traccia sette)

E comunque di quale oscuro pianeta queste son le canzoni? Quali diafani esseri le balleranno? Quali demoni faranno a pezzi? Domande per fortuna senza risposta...

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