Il desiderio di addentrarsi nella contemporaneità del jazz mi ha spinto a procurarmi quest'ultimo lavoro della premiatissima ditta Metheny-Burton. I due ormai sono come padre e figlio, se preferite, fratelli. Ritornano a lavorare insieme, dopo i primi live degli anni'70, "Reunion" e "Like Minds" (cazzo questi si che erano bestiali) e ci sfornano questo "Quartet Live".
Un lavoro live mi attira ancor di più che uno da studio, soprattutto se si parla di questo genere, appunto il jazz odierno, perché si gode di una qualità di registrazione molto più succosa, attraente e ruvida. Non parlo degli applausi ovviamente, ma della spuria arte di uomini che hanno negli strumenti il prolungamento dei loro arti, e si respira la densa atmosfera, nonché la personalità dei nostri.
Alle universali capacità dei maestri sopracitati si unisce l'immane esperienza dell'inossidabile Steve Swallow, che col basso fa sfracelli da anni, come un docile, geniale e preziosissimo comprimario. Un re senza corona che col suo timido sorriso gobboso completa i calibri con onesta prestanza intellettuale.
Il giovane e potente batterista Sanchez, ormai fedelissimo del chitarrista, rinfresca l'emisfero tecnico, ma non apporta il contributo decisivo, sebbene ormai il suo stile sia coerentemente identificabile.
Quello che manca a questo lavoro è la potenza, la prestanza, l'impatto intellettuale estroverso e coraggioso. C'è una sorta di fluido spento, serafico, dimesso, che non limita la qualità della merce esposta, ma la rende, appunto, merce.
Una serie di ascolti permettono di migliorare l'apprezzabilità, l'amalgama, su cui personalmente punto tutto. A livello concettuale si gode una certa stabilità, nessuna forzatura creativa (per Dio, proprio una sega di niente, datemi almeno un motivo per dire che mi avete rotto le palle), ma non si raggiungono picchi che lo elevano ad un gradimento "diverso". Perché percorrere un terreno così sicuro? Lo chiedo io a voi, debaseriani attenti.
Nessun passo in avanti, che aspetto rabbiosamente mentre ripesco, da anni ormai, il jazz anni '60 e '70, anche se devo ammettere che col fresco "Day Trip" di Metheny mi son tolto delle belle soddisfazioni.
Il jazz contemporaneo si esprime su territori ormai esplorati e questo revisionismo (in fondo questa non è la teoria del jazz? Penso tra me e me sconsolato) può certo risultare gradito, dignitoso, (vedi "Falling Grace" di Jim Hall o "Missouri Uncompromised" ) ma non ha l'aria di un punto di partenza od un allargamento di orizzonti. Insomma, la mia teoria è: basta rivisitazioni di pezzi che potevano starsene dov'erano (stesso errore su "Day Trip" dove viene ripescata la tarda fusion minchiona anni '90).
Oso dire che Burton, a cui alla fine verrà attribuito quest'album, ha smesso da tempo di dire qualcosa, sebbene sia grandissimo protagonista del vibrafono, ma spalla in tutto il resto. Pat non lo trascina, esegue.
A dispetto della copertina, esplosiva e coloratissima (perdonate l'insinuazione, un filo trash), il cd finirà presto nel catasto per la sua eccessiva normalità. A me questa bellezza esecutiva non da il piacere che per esempio, quella puttana diabolica di Miles Davis riusciva a prendere a calci in culo e farti sognare. Dio, come mi manca, riesco a farmi piacere persino quell'aborto fusion di "Tutu" (cazzo è indispensabile).
Tornando alla copertina: dov'è questo universo quivi rappresentato? Dove è questa esplosività? Chiude infatti la "splendida solfa", il classico standardone (sarcasmus rispettosus) "Question and Answer" (cazzo, ancoraaaaa???)
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