Nella primavera del Post-Rock era bello sedersi ai bordi di un prato lussureggiante. Folate subdole e capricciose di graminacee sonore svolazzavano a mezz’aria; malinconiche brezze si insinuavano nell’organismo, infiammavano i pensieri e noi starnutivamo sogni abortiti; sogni eccentrici e coloratissimi.
Fragile psichedelia era turbata da sghignazzante ilarità dadaista; esili arie al pianoforte erano arruffate da spasmi compulsivi di clarinetti cacofonici. Impennate schizofreniche di For Carnation imbizzarriti.
Acquerelli Post-Rock erano riflessi da specchi rotti; immagini sgangherate, arrangiamenti bislacchi. Una voce sonnambula intonava filastrocche sotto una campana di vetro; poemetti distanti e distaccati.
Grubbs e O’Rourke intrappolavano farfalle multicolori nella cassa armonica delle loro chitarre acustiche. Piccole gocce di rugiada che benedicevano i bruchi, i girini, i germogli e tutte le cose in divenire.
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