Parafrasando lo scrittore messicano Rolo Diez: "Prendete un mucchio di letame ed aggiungetevi tre gocce di figlio di puttana. Mescolate, cuocete e fuoco lento e otterrete un uruguayano. Mi raccomando, solo tre gocce, perché se ne mettete di più viene fuori un argentino".

Un tratto caratteristico di stronzaggine per il quale gli argentini sono famosi in tutto il continente latino: "Degli italiani che si credono degli inglesi", li chiamano in Brasile, alludendo alla provenienza di gran parte degli argentini, e alla puzza sotto il naso che ostentano nei confronti degli altri sudamericani. Una sprezzante arroganza che ha delle motivazioni storiche, certo. La frustrante emarginazione vissuta dai primi immigrati in una terra straniera, selvaggia e inospitale, ma anche l'orgoglio di avere trasformato questa terra in una delle più opulente - almeno fino al tempo di Peròn - nel granaio del mondo.

La stessa sprezzante arroganza si può trovare nella musica che ha reso popolare l'Argentina agli occhi del mondo, il tango, che ebbe il suo profeta in Astor Piazzolla, altro notevole, seppur geniale ed indispensabile, esempio di stronzaggine indigena.

L'Argentina ha peraltro partorito questo strano personaggio, amico-rivale di Piazzolla: Leandro "Gato" Barbieri, un "pampero" inesorabilmente piazzato sotto il suo eterno cappello a tesa larga, innamorato tanto della fase più sciamanica e spirituale dell'ultimo Coltrane, quanto delle melodie e delle suggestioni della sua terra. Un altro esempio di meticciato culturale elaborato da quel paese sconfinato e lontano, eppure per molti versi tanto affine al nostro. Peccato che la fama di Barbieri in Italia sia legata a momenti tutto sommato episodici della sua carriera, come la collaborazione con Antonello Venditti e la composizione della colonna sonora del film "Ultimo Tango a Parigi".

Dunque nella prima metà degli anni settanta il sassofonista, accompagnato da una band che lo asseconda a puntino, confeziona per la Impulse! la sua quadrilogia, l'opera che maggiormente lo rappresenta: I due dischi di "Latino America" e "Hasta Siempre", il successivo "Chapter Three: Viva Emiliano Zapata", forse il suo vertice espressivo in studio, e per metterci la ciliegina sulla torta, ecco il "Chapter Four", live del 1975 al Bottom Line di New York.

La dimensione live, l'atmosfera disinibita ed eccessiva di quegli anni, la verve dei musicisti coinvolti: tutto contribuisce a rendere incandescente la serata. La sezione ritmica, formata da Ron Carter al basso, il brasiliano Portinho alla batteria e Ray Armando alle percusssioni, pompa a mille per tutta la durata del concerto, raggiungendo momenti di puro parossismo. Sull'incessante ribollire magmatico procurato dalla chitarra di Paul Metzke e dal piano elettrico di Eddie Martinez, Gato piazza le sue bordate di sax tenore: frasi melodicissime, e allo stesso tempo taglienti come rasoi, nelle quali possiamo rilevare tutta l'arroganza di cui si parlava prima.

L'impianto sostanzialmente melodico dei brani presentati (spiccano le sue celebri composizioni "Milonga Triste" e "Lluvia Azul") assicura sempre il piacere dell'ascolto, mentre il trattamento ferocemente ritmico ai quali li sottopone Barbieri, e le improvvisazioni memori di Coltrane e del free, non mancheranno di soddisfare gli audiofili più esigenti. In questo senso è esemplare la versione di "Bahia", dolce standard brasiliano che viene scorticato e ridotto a puro scheletro ritmico, veicolo per le indiavolate evoluzioni dei solisti. Fondamentale l'apporto di Howard Johnson a tuba, flicorno e clarinetto basso, che contrappunta e sostiene costantemente il fraseggio del leader.

Lasciate perdere Venditti, archiviate la pur gradevole e ammaliante colonna sonora di "Ultimo Tango a Parigi". Il vero Gato Barbieri è questo.

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