Si trattasse soltanto di misurare l'esagerazione, si potrebbe semplificare: australiani. Anche la resa sonora è semplificabile: tasso di gain irragionevole su tutto quello a cui si può applicare guadagno. Tanto che la batteria, impelagata in un D-beat lanciato al massimo dei bpm consentito da muscoli e nervi umani, resta indietro rispetto a una frizione che risparmia la vita ai poveri coni solo perché esercitata in sostanziale assenza di bassi. Sono tratti sui quali nei primi '10 gli Iron Lung da Seattle hanno messo il marchio, salvo poi farsene mecenati e accogliere i Geld e altri vari nei ranghi del loro squadrone mortale.
L'urlo è imbecille e elettrico e perlopiù death. Rumore bianco scandito in pseudo-metrica.
Un peso del genere si giocherebbe le orecchie più feticiste con gli arditi, BDSM-oriented, elettronici harsh noise dal Giappone (l'altra grande, forse quella per eccellenza, isola dell'eccesso); non fosse che è gestito con quella che ci si potrebbe azzardare a definire intelligenza: l'intelligenza del fill, a scongiurare l'effetto anestetizzante piatto e rilassante che deriva dall'esposizione prolungata a tale portata di watt. Quindi la breve ma doviziosa preparazione di My Own Most Hopeless Case, di Dripper, a riaffermare che si sta ascoltando hardcore, tra una rapida sinistra sequenza di power chord e un'altra; che si ha un'attitudine definita e un'intenzione netta, una vocazione al massacro.
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