"And Then There Was The Breakdown..." (E poi ci fu il crollo...) sarebbe stato il titolo più adatto a questo LP, uscito dopo l'abbandono dell'ottimo chitarrista Steve Hackett. Il magnifico castello di note che ci incantò nei primi anni '70, rimasto perfettamente in piedi dopo una violenta scossa come l'addio di Peter Gabriel, non resse a quest'ultimo terremoto, e se proprio non crollò del tutto, rimase gravemente lesionato.
Tutti conoscono la grandezza di Peter Gabriel, e non sarò certo io a sminuirla, però è arcinoto che questa è emersa in tempi successivi alla sua uscita dai Genesis, e nemmeno subito (al quarto album, o al terzo a seconda dei gusti).
Se invece si va a vedere il contributo compositivo e strumentale che Peter apportò al gruppo ci si accorge che, testi a parte, fu piuttosto modesto. Così, per quanto dirlo sembri un'eresia, Peter Gabriel si dimostrò un lusso del quale si poteva anche fare a meno, specie avendo a disposizione un'altra ottima voce come Phil Collins, mentre la mancanza di un pilastro strumentale come Steve Hackett si rivelò disastrosa.
Tutto ciò si avverte (eccome) ascoltando "And Then There Were Three": l'onesto bassista Mike Rutherford viene catapultato alla ribalta, a cimentarsi con le parti di "lead guitar", ed è come se in un'orchestra si prendesse un violinista qualsiasi da una fila e lo si piazzasse di botto a fare il primo violino. Eppure i compagni (e lui stesso), un po' per mancanza d'idee, un po' per seguire le tendenze in voga, gli avevano spianato la strada, componendo una serie di semplici canzoni, nulla a che fare con le fantasiose suites dei tempi d'oro, presenti ancora in "Wind And Wuthering".
Qui a ricordare gli antichi fasti dei Genesis ci sono le briciole, le macerie del castello: la struttura articolata di "The Burning Rope", forse unico legame con il vero mondo genesiano, certi ritmi irregolari di "Down and Out" e poco più.
A tenere ancora in piedi la baracca è il solito Tony Banks, ma lo fa servendosi di vere e proprie canzoni, anche se due di esse ("Many Too Many" e "Undertow") si possono tranquillamente definire stupende. Insomma l'inventiva melodica non è andata a farsi friggere, ma quel che manca è il progetto: non c'è più quella fantasia sfrenata che portava i Genesis ad infischiarsene completamente dei limiti della "canzone", seguendo unicamente la creatività. Inoltre per la prima volta si trova anche dell'autentica zavorra, come i grigi rock "Ballad Of Big" e "Scenes From a Night's Dream", e la stucchevole "Snowbound".
Certo dal punto di vista commerciale la conversione alla canzonetta da 4 minuti portò un beneficio: non solo questo disco ebbe ottime vendite, ma nelle radio un brano come "Follow You Follow Me", tecnicamente impeccabile ma dal ritornello mostruosamente banale, divenne un vero e proprio tormentone, e anche la malinconica "Many Too Many" ebbe un discreto spazio. Il vecchio appassionato dei Genesis però se ne impippa della posizione raggiunta in classifica e guarda al contenuto: qui è di livello non più che decoroso.
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