Il punto più basso i Genesis lo toccano fra l'83 e l'86. Ma non c'è poi da sorprendersi più di tanto, visto che se prendiamo la musica di quegli anni, vediamo chiaramente che la pessima qualità è all'ordine del giorno. Siamo messi proprio male, e bisogna dire che i nostri tre, nonostante le pretese, non si salvano. Nemmeno il guru Peter Gabriel resiste alla tentazione, e da alle stampe un album ammiccante e affettato condito di canzoni pop nello stesso anno del tanto vituperato 'Invisibile Touch', ricorrendo anche lui all'espediente più fottuto ideato da MTV: il video trasmesso a rotazione venti volte al giorno (nel suo caso, Sledgehammer).
Sono tempi tristi, di plastica effimera, la banalità impera quasi incontrastata: credo che questo sia da tener presente, almeno per comprendere il perché del concepimento di certe cacche fumanti quali molti dischi sono. Dicevamo che i Genesis non sfuggono alla regola, si danno da fare seguendo la corrente e cavalcandola alla grande. C'è qualcosina, ma proprio nascosta, di originalità e creatività, ma è sommersa da suoni elettronici obesi, esagerati e anche piuttosto penosi; si sa che Tony, Mike e Phil sono bravi musicisti, ma da questo disco non lo si evince proprio, e questo rende l'ensemble ancora più deprimente. Se si aggiunge una veste grafica da Terzo Mondo, lo scontento è più che comprensibile.
Riescono a fare peggio del disco omonimo dell' 83 che già non brillava, per usare un eufemismo. Figlio naturale degli anni Ottanta, questo "Invisible Touch" è un prodotto sfacciato e vendutissimo, allegro e ammorbante, di scarsissima vena artistica, capace solo di fornire qua e là qualche guizzo che per di più può trasparire solo dopo un numero di ascolti che non sono in ogni caso facilmente sostenibili. Comunque, rimanga a imperitura memoria che se non si trattasse di Genesis, il disco non sarebbe forse, dico forse, poi così male.
Batteria elettronica scontata e riff ultra orecchiabili di chitarra aprono la title-track: frizzante quanto si vuole, trascinante magari se si è in vena di fare della carità, ma sinceramente non è quello che vorremo sentire. Il testo è penoso, e ad ascoltarla vent'anni dopo sembra assurda e caotica, coi suoni fastidiosi del synth bass e uno spaventevole "inserto strumentale": se l'avessero fatta gli Wham sarebbe stata una bomba, ma purtroppo si tratta di Genesis, e questo ci fa tremare. Qualcosa di meglio la offre "Tonight, Tonight, Tonight", da quasi nove minuti, aperta da una ritmica programmata dalla drum machine e da sferzate di chitarra che creano un'atmosfera inquietante anche se non molto intensa. Phil canta bene e suona la batteria elettronica alternandola a quella vera, Tony lavora in sottofondo; anche qui c'è l'inserto strumentale, che benché farcito di suoni sintetici riesce a fornire al pezzo una singolare pregnanza, banalizzata poi però dall'apertura successiva quando Phil pesta sulla batteria (bruttissimo il suono della Simmons) e Mike si da ai riff distorti. Chiusura sfumata, per nulla un capolavoro, ma nemmeno inaccettabile.
I guai veramente seri cominciano ad arrivare con "Land Of Confusion", che si regge su di un riff di synth bass programmato col sequencer (Dio ci aiuti… ). La batteria fa casino, il testo di Mike ("La mia prima canzone politica" dice lui) è sinceramente imbarazzante e demagogico, il livello pericolosamente basso; anche qui la batteria elettronica da il peggio di sé. Originale il video pieno di pupazzi decisamente bruttini che scimmiottano i personaggi famosi dell'epoca, Ronald Reagan su tutti. Si rimane parecchio allibiti, ma sembra che i Genesis non ci vogliano bene, perché subito dopo ci calano un polpettone melenso e talmente pieno di zucchero da far venire la nausea. "In Too Deep" è una pessima canzone, una ballata talmente scontata da sembrare una parodia; purtroppo le intenzioni sono proprio quelle romantiche, ma il risultato fa venire i brividi, e non di piacere. Più che altro induce all'autolesionismo: brutto il piano come la chitarra, brutte le programmazioni elettroniche, tutto molto indecente. Altra canzone scadente, "Anything She Does" ha un solo pregio: non ospita la batteria elettronica, e almeno dal punto di vista della strumentazione è suonata un pochino meglio, senza inzuppamenti inutili. Ma richiama altri pezzi tristi come "Illegal Alien" e "Just A Job To Do", cose molto cattive che avremmo preferito chiudere a chiave per sempre; in più Tony, col suono brass del suo synth, fa quasi pena, ci sembra proprio caduto in basso, paiono lontani anni luce anche solo i suoi interventi su "Second Home By The Sea".
Per fortuna arriva, dopo questo trio devastante, quella che mi sento di definire una buona canzone, "Domino", una sorta di mini-suite divisa in due parti, "In The Glow Of The Night" e "The Last Domino". Intendiamoci, non è un capolavoro e non richiama nemmeno un po' i fasti passati, ma in un disco del genere brilla come oro. La prima sezione inizia in maniera rilassata con un riff di chitarra semplici e soffi dolci di tastiere; buona la prestazione vocale di Phil, meno efficaci gli stacchi di pad elettronici e gli inserti ormai obsolescenti di brass sintetizzati, mentre Mike opera in sottofondo con discrezione. La seconda parte è annunciata da un delicato passaggio di tastiere, con la voce che galleggia con morbidezza: non emozionantissimo ma per lo meno gradevole. Subito dopo parte una cavalcata di batteria Simmons sulla quale Tony ricama con note secche e marziali, mentre Mike si da alle schitarrate hard a carattere ritmico. Le tastiere si ritagliano insieme alle percussioni passaggi più delicati dal sapore vagamente etnicheggiante, per poi ritornare a fasi più concitate. E' penalizzante il dispiego eccessivo di suoni sintetici e campionati, che inquinano un prodotto altrimenti discreto. In effetti, penso che "Domino dia il meglio di sé in sede live, dove l'arrangiamento è per forza di cose più scarno. Anche il testo è per lo meno decente e paragona la vita dell'uomo a un gigantesco domino dove prima o poi tutti devono cascare.
Ma il parziale sollievo dura poco, perchè a seguire troviamo il pezzo forse più irritante dell'album. "Throwing It All Away" è un esempio detestabile di pop ruffiano e orecchiabile all'ennesima potenza; coretti insulsi, chitarra fastidiosa, un anticipazione delle tendenze odierne che ritroviamo nelle canzonucole alla Hillary Duff e similia. Orribile. La chiusura è affidata allo strumentale "The Brazilian": un brano non eccelso ma per lo meno un po' intrigante. Dominato dalle rullate di batteria elettronica, che in questo caso però si dimostrano efficaci, il pezzo si snoda tra riff volutamente sghembi di tastiere e interventi di chitarra distorta, fino al bel refrain, dall'incedere maestoso e potente, quasi epico. Molto bella anche la parte finale, dove Rutherford emerge dalle ombre con un assolo a note lunghe che assecondano le tastiere ed elevano ancora di più la curiosa forza evocativa del brano. Ripeto, non è chissà cosa, ma ha buona resa e sullo sfumare chiude con almeno qualche dignità un album sciagurato.
Il peggior disco dei Genesis ha ben poco di salvabile. Non il suono, invecchiato in tempo zero, non i testi, e nemmeno l'uso dissennato della strumentazione. La creatività è al minimo storico, e se qualcosa di decente c'è, esso va ricercato a mio avviso nei due brani più lunghi, Tonight al cubo e Domino, peraltro anch'esse infestate dalle nefaste tendenze del periodo, e nello strumentale di chiusura, che, se vogliamo dire qualcosa di positivo, conservano nelle intenzioni un minimo spessore sperimentale. Tutto il resto è calma piatta, livello bassissimo e in alcuni casi sotterraneo; l'operato di Banks, Collins e Rutherford è difficilmente giustificabile e difendibile, c'è da dire che per lo meno i tre si sono anche sfogati nei vari dischi solisti e hanno evitato di consegnare ai posteri altri "capolavori" targati Genesis durante quella indecente decade. Mi consolo pensando che secondo me si sono in un certo senso riscattati cinque anni dopo, pubblicando un disco che sta ben al di sopra di questo, frutto di un'almeno in parte riscoperta vena artistica.
Per inciso, la rabbia aumenta perché se andiamo a pescare le outtake di questo album, ci imbattiamo in due canzoni che pur non eccellendo raggiungono risultati di gran lunga migliori della maggior parte dei brani inclusi qui. Mi riferisco in particolare all'ottima "Feeding The Fire", pezzo dalle buone ritmiche e dallo svolgimento accattivante, e all'ancor più bello "Do The Neurotic", che personalmente considero una piccola gemma ingiustamente sepolta, uno strumentale pirotecnico dove Mike fa una gran figura con la sua chitarra elettrica. Simili brani avrebbero forse potuto innalzare un pochino il livello dell'album, ma la scelta dei Genesis si è rivelata diversa, più banale e commerciale, dunque ancor più condannabile.
Detto questo, visto che anche oggi, nel 2000 e passa, MTV continua a raccogliere i frutti dei suoi semi avvelenati e la banalità della musica raggiunge ancora una volta livelli preoccupanti, preferisco riascoltarmi i vecchi capolavori, gli epici affreschi di banksiana memoria e gli altri immortali epitaffi progressivi così tanto vituperati dalla storia. Vegliardi ammuffiti, forse diranno, ma più vivi che mai.
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