Non me ne vogliano coloro che su questo album storico hanno già scritto con dovizia critica; e soprattutto non me ne vogliano coloro (tanti, credo) che reputano "Selling England" il capolavoro assoluto della band, visto che assegno solo un 4 ****.

Il fatto è che personalmente adoro questo lavoro, ma mi sento vincolato a relazionarlo agli altri: e siccome considero "The Lamb" il vertice assoluto dell'arte musicale di Gabriel e soci, "Selling England" non mi sento di metterlo alla pari. Ma tutto è relativo e sappiate che il mio 4 vale in ogni caso il doppio se rapportato a molti altri dischi del genere e di quel periodo.

Ordunque… fin dal suo inizio "Selling England" "tradisce" la sua vocazione e la sua natura, che affonda le radici in sentori folk e mitologici per poi farsi metafora di una condizione socio-politica e culturale che la nazione d'origine del gruppo sembrava soffrire. I primi versi della splendida "Dancing With The Moonlight Knight" non lasciano dubbi in proposito, viste le citazioni e le invenzioni liriche di Gabriel che non deludono le aspettative create da un titolo tanto narrativo e leggendario. Il Cavaliere del Chiarodiluna si dipana come un affresco favolistico ed epico tra l'unifauno (creatura gabrieliana che mescola fauno ed unicorno) e la Regina del Può Essere, cantando le sorti di una Terra che è divenuta preda del mercimonio e ha perso le sue ambizioni più nobili.

Cavalcata davvero tra atmosfere nebbiose, orizzonti storici e momenti di pathos che sventagliano emozioni forti, questa lunga canzone mette subito in gioco tutte le capacità tecniche dei cinque artisti e gioca i suoi assi senza timori, celebrando il Genesis-pensiero con una maturità e una compattezza di cui il precedente "Foxtrot" difettava. Gabriel interpreta con accorato trasporto e gli altri a seguire tessono arpeggi e riff impressionanti, con un alternarsi di liriche sospensioni trovatoriali e impetuose percussioni rockeggianti, fino alla chiusura delicata e nebulosa che trascina in una dimensione forse più illusa, ma non meno incisiva.

"I know what I like", a seguire, ci riporta per un attimo coi piedi per terra: testo bizzarro e nonsense, atmosfere familiari e scanzonate, meno drammaticità e più citazione ludica. Una splendida poesia melodica che trova nel suo ritornello uno degli apici della carriera dei Genesis, sicuramente votato ad ispirare successive analoghe composizioni di taglio più commerciale (anche nella durata e nella struttura). In effetti "I know what I like" è l'unico brano "da classifica" dell'intero album e resta un classico anche al di fuori della cultura dei fans. Indimenticabilmente proposto da Gabriel sul palco con corolla di fiore rovesciata sul capo e lunghe spighe di grano in bocca.

Quindi "Firth of Fifth", criptico ed enigmatico excursus parabolico - in senso di parabola - con molti riferimenti biblici e una compensazione tra partiture classicheggianti e corali e passaggi più minimali e in penombra. Pianoforte protagonista e il flauto ancora in evidenza, prima del quasi definitivo inabissamento di "The Lamb" (dove il flauto compare in minima parte). Bellissima prova manuale di Tony Banks, bellissimo sviluppo del tema centrale intessuto su vari strumenti senza peccare di prolissità: dal solo flautistico al piano per poi aprirsi in modo toccante sulle corde di Hackett, così struggente da dare l'impressione che il pezzo non avrà un finale in tono maggiore.

Un classico anche questo, benchè tirato per le lunghe nelle parti vocali.

"More Fool Me", che sul vinile chiudeva il lato A, resta un episodio emblematico - nel bene e nel male - dell'evoluzione dei Genesis, praticamente anni prima che il gruppo vivesse non solo la defezione di Peter Gabriel e poi di Steve Hackett, ma anche una decisa virata verso un distacco dai canoni del prog-rock per sposare la causa melodico-addomesticata di Phil Collins. Il quale, guarda caso, interpreta qu per la prima volta una canzone come assoluto solista, miagolando parole di mesto sentimento su una base di timide schitarrate acustiche.

Un brano non felice, sebbene difeso da alcuni fans, che ha più una valenza storica che artistica, non eguagliando certamente lo spessore creativo del resto dell'album. Alla fine in anticipo sui tempi, ma a mio avviso fuori luogo in quel contesto.

"The Battle Of Epping Forest" è la martellante trasposizione in musica di un'episodio che al tempo aveva interessato la cronaca britannica, ovvero lo scontro "organizzato" tra due bande giovanili nel succitato bosco di Epping. Con piglio estremamente divertito e seguendo uno schema narrativo preciso, Gabriel canta le gesta "eroiche" dei protagonisti di quella battaglia, dilungandosi in modo forse ostico per chi non conosce bene l'inglese e costringendo il resto della band a districarsi tra molti incisi e refrain che sui 12 minuti abbondanti del pezzo finiscono per appesantire un po' il tutto.

A me è sempre sembrato una sorta di divertissiment ad uso e consumo degli inglesi e di un certo approccio culturale tipicamente britannico, dato che questa canzone non regala fremiti particolarmente profondi sul piano evocativo. Se da un lato il marchio di fabbrica Genesis c'è, dall'altro si ha l'impressione che sia un pezzo altrui reinventato da Banks e Rutheford; con un mood tendente più a "Foxtrot" (specie a "Get'em Out By Friday") che non ai momenti più lirici di "Selling England".

"After the Ordeal" è uno strumentale scritto da Hackett che torna a manifestare quella dimensione epica e madrigalista della prima parte dell'album, con una profusione di arpeggi e di atmosfere classicheggianti che vanno a chiudere su una discreta scrittura, da cui riaffiora il flauto di Gabriel. Non un brano fondamentale, ma sicuramente una riassestamento emotivo che fa da ponte tra gli eccessi di Epping e il gran lavoro di "The Cinema Show". Quest'ultimo senz'altro momento rilevante non solo dell'album, ma anche di tutta la fase con Peter Gabriel.

Iniziando con una delicatezza sentimentalista tipica di certe loro ballad e mettendo in gioco subito elementi e personaggi che diventano simbolo e metafora (Romeo e Giulietta) di un tempo - il nostro - in cui gli amanti non sono meno tormentati di quelli di molti secoli fa, il pezzo si sviluppa poi su un intreccio notevole di arpeggi che riprendono la dimensione favolistica ed epica. Tirando in ballo Tiresia e giocando su acute ambiguità letterarie e mitologiche che portano la sessualità su un piano probabilmente quasi criptico per chi non conosce a fondo la scrittura di Gabriel.

Protraendosi in un tutt'uno con "Aisle Of Plenty" che chiude l'album, "The Cinema Show" tocca corde che neanche i Genesis di "The Lamb" ebbero più modo di sfiorare, vuoi imbrigliati dallo stato emozionale della storia di Rael, vuoi progressivamente allontanatisi dai loro equilibri interni. E così il lungo strumentale che prelude al triste annuncio di mercificazione dell'Inghilterra venduta al soldo, resta il più spontaneo e autentico testamento della loro carriera di gruppo originario, con un susseguirsi di fraseggi che impegnano tutti i musicisti senza mai staccarsi dallo stile tipico del sound che avevano forgiato e cesellato dal '69 in avanti. Grande Banks, grande Collins, grande Hackett, grande Rutheford: riusciti a non essere prolissi e autocitazionisti in una partitura che poteva diventare davvero una trappola.

La mesta chiusura del disco ode la voce strozzata di Gabriel che riprende le melodie del Cavaliere iniziale, mentre nubi funeste si addensano sui cieli d'Inghilterra e i personaggi che hanno popolato il racconto si disperdono come fantasmi tra le foschie, lasciando spazio alle logiche del mercato, del consumismo, di una politica che non ha più nulla di epico e glorioso.

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