Io adoro i Genesis, non c'è che dire: hanno e avranno la mia stima infinita. Ma parlarne è difficile, un po' perché sono un grande gruppo molto chiacchierato, un po' perché i loro fan non rappresentano affatto un gruppo unitario. E' chiaro infatti che la grande spaccatura che divide in due la storia del gruppo si è ripercossa negli anni anche tra le fila dei loro sostenitori, distinguendo, a grandissime linee, i "gabrielesi" dai "collinsiani". I primi sono particolarmente animosi nei confronti della produzione post 77, e molti di loro stanno lì col fucile puntato pronti a sparare a zero sui dischi dell'era Collins.

Detto questo, ci terrei a sottolineare che esiste uno stuolo di fan dalle attitudini un po' più elastiche che, seppure con i dovuti distinguo, prendono i Genesis e la loro produzione per quello che è: un modo di fare musica, discutibile se volete, ma perfettamente legittimo; costoro apprezzano l'intera produzione della band, ribadisco, con la dovuta obbiettività e la necessaria critica. Se è vero che i dischi del primo periodo rimangono gli assoluti capolavori, è vero anche che la "svolta pop" è riuscita comunque a generare, tra gli altri, album di gran pregio. Penso che 'We Can't Dance' sia tra questi.

Un album del 1991 che ritrova la band ancora molto in forma cinque anni dopo la sbornia sintetica e l'enorme successo del difficilmente salvabile 'Invisible Touch', rispetto al quale rappresenta un passo avanti rilevante. Innanzi tutto cambia molto il suono: via le batterie elettroniche, via anche Hug Padgham, artefice del suono Genesis anni 80, dentro Nick Davis che riscopre l'efficacia di arrangiamenti più scarni, suoni corposi di tastiere, batteria molto secca e diretta. Rimangono le drum machine col loro suono liquido tipico, e un po' scontato, sin dai tempi di 'Duke', mentre le parti di basso non sono assolutamente all'altezza, ma i risultati non mancano di stupire gli ascoltatori più attenti. Il disco è stato registrato agli studi di The Farm e le musiche, tutte composte a partire da improvvisazioni, senza nulla di rimaneggiato, sono state scritte collettivamente dal trio.

Si parte con No Son Of Mine: ticchettio di metronomo, chitarra distorta con ruolo ritmico e il famoso "muggito" di Banks (ovvero un effetto della chitarra di Mike alterato e campionato) creano un'atmosfera drammatica cui ben si adatta la potente batteria di Collins con colpi secchi e scansioni sui piatti. Meno efficace il ritornello col suono cristallino di tastiere un po' troppo ruffiano, molto suggestivo e intenso invece il finale, con la chitarra di Mike che ricama con precisione in sottofondo. Bravissimo Phil anche nella parte cantata e molto bello il testo, che racconta una brutta storia di violenza domestica e di fuga. Un ottimo inizio che presenta bene i Genesis anni 90. A seguire si trova la veloce e scaltra Jesus He Knows Me, ironica canzone contro l'evangelismo dei santoni in tv, dalla ritmica molto semplice ma efficace, aperta dal suono elettrico e sghembo del synth di Tony e sorretta da schitarrate di Mike. A metà circa c'è un simpatico intermezzo quasi reggae che contribuisce a rendere la canzone di gradevole ascolto.

Con Driving The Last Spike arriva la prima grande sorpresa. Un suono acquatico di drum machine subito supportato dalla chitarra elettrica apre questo emozionante crescendo da dieci minuti che passa dai toni tenerissimi di una ballata a fasi più concitate dove la batteria viaggia secca e regolare; la chitarra dialoga con le tastiere in avvincenti botta e risposta, ma si esibisce anche in riff hard e scansioni ritmiche. L'interessante testo impreziosisce ancora di più il brano, e parla degli operai che nell'Ottocento costruirono le ferrovie britanniche, pagando un alto tributo di sangue. Un pezzo sorprendente e originale, lontano dai fasti passati ma che testimonia la ritrovata vena artistica di Mike, Tony e Phil.
I Can't Dance è una canzone curiosa, con un riff di chitarra ritmica su cui si snodano voce e synth, e nella seconda parte anche il pianoforte. Da notare il bizzarro effetto del sintetizzatore di Tony e la voce molto "black" di Phil, che canta molto bene un testo sarcastico nei confronti delle vuote bellezze da rotocalco. Con Never A Time si incappa in una canzone piuttosto piatta, che ricorda l'orrida It's Gonna Get Better dall'album 'Genesis', dimenticata senza alcun rimpianto. Tutto nella norma, tastiere diligenti, chitarra che ricama in sottofondo, voce ineccepibile, ma ben poche emozioni.

Le cose migliorano decisamente con la lunga e suggestiva Dreaming While You Sleep, in cui una drum machine dai molti riverberi crea un tappeto sonoro su cui la chitarra di Mike si ritaglia note lunghe e inquietanti mentre Tony si limita alle rifiniture e la voce di Phil rimane sommessa; la canzone si innalza nell'intensissimo ritornello, dove esplode la batteria con colpi potentissimi e Collins si scatena (un vago ricordo di Mama?). Bellissimo il finale con le note lunghe di Rutherford e le tastiere corpose di Tony e ancora una volta degno di nota il testo, scritto dal chitarrista: la lugubre storia di un pirata della strada che dopo aver investito una ragazza viene corroso dal rimorso per tutta la vita. Tell My Why è un'altra canzone un po' così, ma sono carini gli arpeggi di Mike alla rediviva 12 corde, mentre tutto il resto non spicca per originalità. Le quotazioni si risollevano con la successiva Living Forever, una canzone molto allegra, aperta da un'ottima batteria jazzata che lavora di spazzole e piatti (credo ci siano anche percussioni elettroniche che però non infastidiscono), riff ritmici di chitarra e tastiere che spiccano con note ariose. Il finale è strumentale ed è caratteristico, con Tony in bella evidenza in un assolo, ma anche Mike si fa sentire, mentre Phil dimostra una volta di più tutta la sua classe.

Brusca inversione di tendenza con Hold On My Hart: piacerà ai fan di Collins, ma insufficiente per palati un po' più raffinati. Può regalare una certa atmosfera, volendo essere generosi, ma ad una band come i Genesis si ha diritto di chiedere di più. Discorso analogo per l'irritante Way Of The World, che di apprezzabile ha ben poco, forse l'assolo di Tony, che lascia comunque il tempo che trova. Dimenticabile. Una melensa ritmica da canto di Natale caratterizza Since I Lost You, che però a un ascolto attento regala qualche spunto in più, innanzitutto nella voce di Collins molto calda ed espressiva e nei delicati contrappunti di Mike nel finale; forse un po' troppo da romanticoni pecorecci, ma tant'è. Il testo non riguarda l'ennesimo divorzio di Collins, ma la morte di Connor Clapton, figlioletto del grande Eric e di, udite udite, Lory Del Santo (!).

Gran finale, è il caso di dirlo, con la magnifica Fading Lights, a mio avviso il brano migliore dell'album, dieci minuti che condensano un po' tutta l'arte recente dei Genesis. Si inizia con una consueta base percussiva creata dalla drum machine, poi le tastiere di Tony entrano con un bellissimo suono di archi e con una successione di accordi da brividi. La voce di Collins è emozionante e particolare, l'atmosfera intensa, mentre Mike si inserisce con delicati arpeggi di supporto dopo la prima strofa. Dopo tre minuti e mezzo una potentissima rullata di batteria e schitarrate hard aprono lo stupendo inserto strumentale, di cui Tony prende il timone esibendosi in un epico ed evocativo assolo, rendendo il brano molto suggestivo. Phil intanto scandisce il ritmo con la solita impeccabile precisione e inventiva, e Mike dimostra la sua classe assecondando il tutto con note nascoste di chitarra, fino all'ultima strofa, dove si segnala con un breve ma efficace assolo ricercato alla grande; il pezzo si conclude nella stessa maniera eterea con la quale era cominciato, regalandoci anche, con le sue pregnanti liriche, un caldo addio ai tempi che furono e a Phil Collins, al suo ultimo album col gruppo.

A conti fatti 'We Can't Dance' si presenta a mio avviso come un buonissimo lavoro. Le tendenze al pop sintetico e facile hanno contagiato i nostri in maniera penso più dignitosa che negli anni Ottanta; Tony, Phil e Mike dimostrano il loro stile e in un certo senso la loro maturità. Molto bello dal punto di vista lirico, quest'album è interessante anche musicalmente: non penso lo si possa definire un album "à la Phil Collins", perché canzoni come Driving The Last Spike, Dreaming While You Sleep, Living Forever e l'ottima Fading Lights mostrano senza dubbio più di altre l'apporto fondamentale di Tony e Mike, che c'è, e si sente. Suggestivo e a tratti affascinante, è una prova interessante da parte dei Genesis, per altro da poco tornati a suonare insieme. Non mi prefiggo di certo l'obbiettivo di convertire nessuno, ma mi auguro di poter aiutare coloro che ai Genesis si vogliono accostare fiduciosi oppure quelli che, in uno slancio di bontà, si sentono di dare ai tre bravi musicisti, a distanza di sedici anni, una nuova possibilità.

Per chi lo desidera, appuntamento a Roma il 14 Luglio 2007.

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