Nell’aria risuonano alcune note del classico “L’Appuntamento” di Ornella Vanoni, ma l’atmosfera è cupa, la luce è fioca, e l’aria inizia a diventare sempre più tesa sotto il vibrare di un suono di chitarra ancestrale che sembra provenire dall’inferno, o qualcosa del genere… E la cara Vanoni, a dispetto del genere che il gruppo ostenta sul suo myspace ufficiale (“chansonne italienne”, canzone italiana), viene distrutta da un riff post che più post non si può, annichilente nella sua semplicità, nel suo incedere figlio dei Neurosis ma alleato del post-hardcore più moderno.

Sigaretta in bocca, capelli arruffati, un’aria un po’ brilla e una passionalità fuori dal comune, così si presenta Jean-Charles Debeaux, cantante/chitarrista francese (ma di origine palermitana) e principale compositore di questo trio di Valence (quella francese, non spagnola!). Questi sono i Geneva, così come si sono presentati nel loro scorso concerto a Lione, di supporto ai colleghi ginevrini Knut (una formazione che, mi auguro, i lettori di questa recensione conoscano bene).
Estasiato da un concerto che, seppur innaffiato da una sana dose alcoolica nelle vene mie e della band, ha saputo regalarmi più di qualche emozione, compro senza esitare il loro CD originale con il chiaro intento di recensirlo, cosa che finalmente mi decido ora a fare. 

Prima cosa: l’intro della Vanoni non c’è, e questo è già un gran vantaggio. Al suo posto, la chitarra di “And Dust My Sugar From The Fold” esplode in un impeto post-hardcore di efficacia straordinaria, con una freschezza che non si sentiva da tempo in un genere come questo. Per quanto i Geneva non siano originali (recuperano un’etica che è appartenuta a molti gruppi prima di loro, ad iniziare dai Breach per arrivare ai Cult Of Luna), riescono con maestria ed eleganza a comporre riff che, si, sono veri “riff”, non giri a vuoto e perdite nell’infinto di tanti gruppi come loro. Sono abili, plasmano la materia post-metal come un saggio scultore fa con il marmo, riescono a dosare rabbia e melodia sopra un sostrato di passionalità forte ed incisivo. 

Ecco perché “Sails On Sud” potrà regalare più di qualche emozione: è semplice, diretto, è costruito in maniera tale da indurre l’ascoltatore in una sorta di ipnosi che quasi gli impedisce di interrompere l’ascolto una volta che un brano è iniziato.
Questa incisività così dirompente, unita alla freschezza dei loro intenti, si può ritrovare proprio nella traccia d’apertura, con alcuni riff che mille band come loro avrebbero voluto comporre senza riuscirci. Un oceano di suoni, sensazioni, emozioni dirompenti, forte, passionale, atmosferico sì ma che sfrutta tale atmosfera per esprimere quello che ha dentro, non per vagare nel nulla. Questo è il post-hardcore come lo intendono i Geneva: i chitarroni e le urla di Charles, uniti al basso viscoso di Alex e alle percussioni atmosferiche di Rémi, si perdono in un’ incedere greve, che trasforma la sua drammaticità iniziale in luminosa speranza, anche solo al cambiare di una nota, scorrendo liscio come l’olio in un pantano sonoro in cui è una goduria abbandonarsi. 

Le altre canzoni non fanno altro che riprendere la scia della prima, sviscerando tutto quello che i Geneva hanno dentro come in un nero affresco di emozioni: “Drivin Across The Sky” inizia con un arpeggio per poi evolversi in riffoni sostenuti che poi si contorcono a si feriscono a vicenda. I Geneva qui rientrano appieno in ogni canone del post-hardcore più tradizionale, eppure lo rielaborano con una tale perizia e passionalità che si rimane affascinati dal loro modo di suonarlo; ecco perché gli si perdona senza remore la mancanza di originalità. Breach e Cult Of Luna, come già detto, ma anche i suoni grassi degli Isis e dei Minsk, l’atmosfera di Mogwai ed Explosions In The Sky, l’apocalisse dei Neurosis… Sono molte le influenze ostentate dal trio, eppure, lo ripeto, non se ne sente il peso. 

A parte qualche episodio un po’ meno scorrevole (“All In All”, comunque grandiosa) e qualche pausa che, seppur leggermente fuori luogo, aiuta a spezzare un po’ la tensione (“On My Own”, supportata da una buona voce pulita e da limpide melodie “mogwaiane”), il disco scorre che è un piacere, facendo emozionare e divertire. Non posso non citare i riff iniziali di “Echoes Wine”, un vero colpo basso per il mio cuoricino delicato, più unici che rari in questo genere, e la doppietta “Opposite/Attract” divisa in due parti, con il supporto vocale di Pierre Vigueir dei Tantrum: l’inizio mi ricorda un po’ quello di “By The Gallows” dei Khoma, ma il pezzo forte sono i suoi riff spezzati e apocalittici che, se dal vivo mi hanno quasi fatto sbattere con la testa conto il palco, su disco coinvolgono e distruggono tutto ciò che hanno attorno, ogni distrazione esterna. Una ferita che però viene subito sanata dalla successiva parte del brano, molto più lenta, con un incedere post-rock nell’animo e sludge nei suoni, probabilmente influenzato da certe cose composte da act come Minsk e Rwake. 

Chiudo la recensione citando l’ultima traccia, “Hope”, quasi 13 minuti di scavo nell’interiorità dell’ascoltatore, in un mare profondo dove affogare con estremo piacere. Uno dei brani migliori dell’album.
Prodotto da Serge Morattel (Knut), “Sails On Suds” è indubbiamente uno dei dischi post-hardcore più tremendamente efficaci del 2010. Quando ascolterete questo disco sarete solo voi e lui. Premete play e non riuscirete più a staccarlo dalle vostre orecchie per settimane, garantito.
Auguro un futuro radioso a queste promesse del post francese!

Carico i commenti...  con calma