Pochi gruppi rock hanno assemblato un livello medio di tecnica musicale al pari dei Gentle Giant. Siamo in presenza di polistrumentisti capaci di passare dal Jazz al Folk, dalla Classica al Rock con grande disinvoltura e spontaneità. Il sound del “gigante gentile” si caratterizza appunto per la varietà degli approcci musicali che tuttavia coesistono in una sintesi perfetta, altamente originale.
In questo senso, ritengo che “Acquiring the taste” sia il loro album più bello: è quello in cui alla spontaneità e vivacità creativa dell’ esordio si assomma una maturità espressiva sorprendente. Tutti i brani sono legati tra loro da un’unità armonica e stilistica, cosicché diventano immediatamente riconoscibili. Non ci sono qui le complicazioni tecnicistiche ed il gusto per il barocco e l’ arzigogolo che ha funestato alcune opere del secondo periodo (quello da “Octopus” a “Free Hand” , per intendersi). E nemmeno accade che le componenti rock e sinfonica (per semplificare) determinino dei brani unilateralmente, come avveniva nel pur fenomenale disco d’esordio (la diade Why Not - Funny Ways). Qui gli elementi molteplici della ricetta danno luogo ad un impasto in cui i sapori si esaltano nell’equilibrarsi. Ed allora ecco il sound pastorale, impreziosito dai cori a cappella dei fratelli Schullmann, di “Pantagruel’ s Nativity” , il cromatismo surreale di “Acquiring the taste” , breve ma prezioso intermezzo di Moog, che esalta le doti del politastierista Kerry Minnear. Proprio la cura dei timbri (vengono usati, tra gli altri, harpsichord, xylophono, violino e sax) costituisce uno dei tratti salienti del sound del gruppo, in particolare di quest’album.
Ma le cose migliori arrivano in quella che era la seconda facciata del vinile. “Wreck", costruita su di un accattivante giro di basso suona rockeggiante ma prima dello splendido finale in cui il solo dell’ elettrica di Green si libra su di un tappeto di liquide tastiere accade il miracolo: come un’ oasi di terra ferma in mezzo ad un oceano in tempesta flauto ed harpsichord disegnano un delicato pastello medioevale estremamente suggestivo. Ma c’è di più. Il culmine è raggiunto dalla sublime “The moon is down”, ballata trasognata che si apre ad una divagazione di stampo jazzistico che veramente vale da sola il prezzo dell’ album. Violino ed elettrica diventano onomatopee degli striduli miagoli di un gatto nella successiva “ The black cat”, di poiana memoria.
Last but not least “Plain truth” , il gran finale che anticipa di venti anni almeno alcuni temi del miglior prog-metal e li impreziosisce di sfumature jazz. Meraviglioso. Ragazzi, fatevi un regalo, compratevi questo disco. Ne vale la pena.
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