Nella tarda primavera del 1993 il dj Mixo, allora nome di punta di una tivù italiana dedicata esclusivamente alla musica (MTV si diffondeva solo allora dalle nostre parti) conduceva una trasmissione dall’enfatico, ma azzeccato titolo di “Rock Revolution”, rivisitando la storia recente me meno recente del rock. Si era in piena esplosione grunge e per chi, come me, mal tollerava allora l’eccessivo entusiasmo modaiolo per le pur ottime incisioni di gruppi come Nirvana, Soundgarden, Alice in Chains e Stone Temple Pilots, il richiamo ai fasti dei primi anni ’70 non poteva che essere una salutare boccata d’ossigeno. Fu in una di quelle trasmissioni che il valido Mixo lanciò il video semiamatoriale di un gruppo a me assolutamente sconosciuto, tali Gentle Giant, impegnati nell’esecuzione di un pezzo del ’76, Interview. Per me, cresciuto a pane e Deep Purple, la vista del gruppo inglese rappresentò una autentica folgorazione: mi stupì l’estremo tecnicismo del quintetto, l’abilità con cui i musicisti producevano una musica articolata, complessa, e pur raccolta ed essenziale, senza eccessivi sovrarrangiamenti che contraddistinguevano tanti album dell’epoca.
L’immagine della band risultava, del pari, molto diversa da quelle di tante altre formazioni dell’epoca, concedendo poco o nulla a sfarzi e pose da rockstar. Il tutto aveva, in sostanza, un approccio minimale e dilettantesco (nel senso nobile del termine) che, avrei scoperto negli anni, appartiene più a certi ambienti jazz che a quelli rock. Anni dopo comperai finalmente l’album Interview (’76), nella acquisita consapevolezza che si trattava di uno degli ultimi album del gruppo, già attivo da diversi anni e noto, soprattutto in Italia, come uno dei caposaldi del prog rock inglese dei primi anni ’70.

Va evidenziato come, nell’anno in cui Interview veniva dato alle stampe, il prog rock costitutiva ormai un ricordo, destinato ad infrangersi contro la marea del nascente punk rock inglese di band come Clash, Sex Pistols, Wire e dall’affermarsi di una nuova estetica che rendeva di colpo preistorica la musica e l’immagine di tante band di successo negli anni precedenti. A riprova di ciò, il ’76 fu anno di tendenziale “crisi” per band come Yes, Genesis, Van der Graaf Generator, come pure per gli stessi Led Zeppelin e Deep Purple, vicini allo scioglimento o sul punto di sciogliersi. In questa temperie storica, i Gentle Giant confermavano, a mio avviso, la loro natura di band atipica e la loro capacità di reinventarsi senza perdere un briciolo di efficacia stilistica e compositiva. In tale ottica, Interview si allontanava dai tipici schemi prog degli album (e dell’epoca) precedenti, per rifondare il sound della band su basi più essenziali e sull’utilizzo di una strumentazione più spartana, anche se ciò non implicava una automatica rinuncia alle proprie direttive musicali.

Tutti i pezzi dell’album (sostanzialmente un concept sul mondo della musica) si dipanano, pertanto, sugli articolati contrappunti ritmici di Ray Shulman (bs) e John Weathers (bt), sui quali si impostano i serrati fraseggi di Gary Green (ch) e Kerry Minnear (ts), tutti a sorreggere le prestazioni vocali e gli acuti di Derek Shulman.
L’iniziale Interview rappresenta, a mio parere, il pezzo migliore del lavoro: da ascoltare, soprattutto, il tema di basso, che anticipa impercettibilmente la melodia portante del brano, condotta dal singhiozzante organo di Minnear, come pure gli assolo di chitarra e tastiere nel break centrale. Degne di nota sono anche Another World, Give It Back, Empty City e Timing, caratterizzati da un impostazione rock parzialmente inedita per il gruppo, e dai cesellati interventi di tutti i musicisti: ogni nuovo ascolto dei brani stupisce per a semplicità solo apparente degli accompagnamenti musicali, che appaiono, in un primo momento, spartani, ma che rivelano, gradualmente, profonde trame sonore.
Molto particolare, appare, invece, Design, canzone corale accompagnata dalla sola batteria (!), in cui lo stile del gruppo si rifà a quegli influssi medievali che avevano caratterizzato tanta produzione precedente, qui riesposti con particolare austerità. Degna di nota risulta, infine, la conclusiva I Lost My Head, pezzo soft hard che alterna momenti di quiete ad esplosioni hard rock, ben sorrette da armonici arpeggi di chitarra acustica ed incisivi riff di chitarra elettrica. L’architettura del brano ricorda alcuni pezzi coevi dei Jethro Tull, anche se il brano è caratterizzato dalle dissonanze tipiche del gruppo, piuttosto che dalla commistione folk rock tipica della band di Anderson.

Da molti considerato un capitolo minore della discografia del Gigante Gentile, Interview è un album centrale per comprendere il “tramonto” del prog, con il pregio di contenere splendidi pezzi, composti egregiamente suonati ancor meglio.

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