(premessa - il voto sarebbe da qualche parte tra le 4 e le 5 stelle, come al solito lascio scegliere a voi DOVE esattamente)
Ok, premetto che una recensione sui Gentle Giant scritta da uno che si fa chiamare Panurge potrà sembrare un po' di parte - e conseguentemente poco attendibile, ma d'altronde a queste cose ci avrete fatto l'osso, quindi non mi sembra il caso di farsene una paranoia.
Probabilmente avrete già sentito qualcosa dei fratelli Shulman e soci, quindi una descrizione dello stile che fanno sarebbe ridondante. D'altro canto, però, se state leggendo queste righe è perchè volete sentirvelo dire, oppure perchè aspettate che dica una cazzata che giustifichi una vostra critica ben piazzata, oppure ancora vi state semplicemente grattando le ovaie in attesa che io cominci a parlare del disco. Cosa che faccio subito. Ahem.
Se vi dicessero che i Gentle Giant fanno la musica più complicata e complessa che la storia ricordi, piena di poliritmi, melodie sovrapposte, armonie che si arrampicano le une sulle altre, cambi di tempo e tempi dispari a decine, eccetera, probabilmente nel vostro laborioso cervellino si formerebbero visioni di aride e rinsecchite lande dove il piacere primordiale che la musica è nata per procurarci si è definitivamente spento (amenochè voi non siate flippati per questo genere di cose).
Ascoltando direttamente la musica, può darsi invece che tale terrifica visione non si formi - infatti, nonostante la descrizione che - impettito - ho snocciolato (mostrando un notevole senso del climax) non sia propriamente falsa, nonostante questo dicevo, l'estrema intricatezza che caratterizza la musica contenuta nel disco che vedete ben rappresentato sui vostri teleschermi NON ne pregiudica la nobile e animalesca natura di Musica. Volendo fare un paragone con la pittura, quella dei Gentle Giant rimane semplice arte figurativa, anche se raffinatissima - non degenera insomma (almeno nel periodo 1970-74) in quell'autocompiacimento nozionistico e meta-artistico che sembra fare impazzire certa critica.
Facciamo un esempio: inizialmente, ascoltando "The Boys in The Band" uno potrebbe considerare tutti quei cambi di tempo come ridicoli e non necessari; dopo qualche ascolto però ci si accorge che non si tratta di "complexity for complexity's sake", e anzi - si capisce che la struttura arabescale della canzone ne è parte integrante e irrinunciabile, e cosa ancora più notevole, ci si rende conto che la canzone (per dirla col linguaggio giovane) "spinge". Spinge in modo diverso da tutto quello che abbiamo sentito spingere prima di essa, ma spinge. Bene, lo stile, lo sapete già, è prog-art-jazzy-medieval-rock (ah...), e sostanziamente si oscilla sempre tra il lato "gentle", in canzoni come la curiosa "Dog's Life", o "Think of me with kindness", ballata forse un po' sassofrassa ma strutturalmente ineccepibile - e il lato "giant", che domina nella rabelais-indotta "The Advent Of Panurge", in "River" e nella già citata "The Boys in the Band" - tre capolavori che renderebbero quest'album degno di acquisto anche se tutto il resto fosse rumore bianco.
Ah, e poi c'è la chicca più puramente medievaleggiante di "Raconteur Troubadour", le mille voci sovrapposte di "Knots" e "A Cry For Everyone", dove diverse linee melodiche si rincorrono eccetera eccetera. Mi viene da ridere se penso che all'epoca erano una band "minore", mentre adesso probabilmene cadrei in ginocchio con le lacrime agli occhi se qualcuno se ne uscisse con un disco così. No, forse no. Ma fa figo dirlo.
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