Di cosa scriviamo quando scriviamo una recensione? Perché affidiamo parole opere e omissioni ad una tastiera? Domande capziose, lo riconosco, ma, mentre ascolto "In Memory of Savannah" dei Gentle Touch, non posso fare a meno di interrogarmi.
Potrei custodirne il segreto, centellinare gli ascolti e bearmi della mia sensibilità. A che pro prodigarsi in volgarizzazioni, the world won't listen, si sa.
Ma sono anche un animale intelligente, dotato di pollice opponibile e debbo pur esercitare una forma di socialità. La recensione, appunto. Che sta alla scrittura quanto una sega ad un amplesso, ma tant'è. E non tanto per condividere o, peggio, divulgare un sapere; recensire è soprattutto un mero espediente per affermare un ipotetico "io artistico", altrimenti negato.
Facciamo outing, cari colleghi onanisti: la recensione è per noi un oracolo a cui attingere vanità anziché verità, il semplice atto di ungere la rete per vedere che effetto che fa, un accattonaggio spesso molesto di simpatie che cristallizza il nostro solipsismo in secrezioni pseudo letterarie,
Questo ci piace fare, vittime di una perversione pandemica: indugiare allo specchio deforme delle ambizioni frustrate.
Perchè nessuna mia conversione all'ortodossia critica, come nessun mea culpa, vi illuminerà mai sulla strada che consegna gli svedesi Gentle Touch alla storia recente delle indie: relazionare con parole ed opere di come il synth pop anni ottanta sia sublimato lo scorso anno nel (perdonate il calembour...) sublime "In memory of Savannah" è, come predica il teorema dello zio, inutile ed impossibile quanto ballare l'architettura.
Così potrei citare i Depeche Mode, i New Order, i The Wake periodo "Here comes everybody", i Joy Electric, giusto per svolgere il compitino facile facile; ma mi accoderei solo a quanto già scritto altrove, otterrei un bignami di ovvietà, un bugiardino sterile e non riuscirei come vorrei né a magnificare i Gentle Touch né a giustificare il panegirico che "In memory of Savannah" merita.
M'illudo invece di riuscire con questo chiosare vanesio e verboso, per quanto involuto e zuppo di omissis, nell'intento di condividere non solo le emozioni restituitemi dall'ascolto, soprattutto di stimolare le vibrazioni dell'aura del martire del pop, di affinare l'elettività che ci accomuna nei gusti e fidelizza all'attitudine giusta, ciò che ci porta a camminare testa alta e mani in tasca per le strade della nostra città, ad incrociare sguardi curiosi con occhi assenti, due spanne sopra il selciato, depositari del verbo della bellezza sconosciuto ai più. Poveri loro.
"In memory of Savannah" non è un disco da isola deserta, è molto di più: è un segno distintivo, un badge al cuore, la dissonanza cognitiva dei momenti in cui si esperienza quella superiorità, giustificata e impagabile.
Perché noi valiamo.
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