Nel fondamentale saggio “La camera chiara” (1980), Roland Barthes, riguardando diverse fotografie della madre defunta, in cerca della verità nascosta fra le innumerevoli istantanee della sua vita, si sofferma su una sua foto da bambina insieme ai fratelli sotto le palme del Winter Garden. In un dettaglio delle mani della madre egli vede il “punctum”, ossia il particolare che cattura l’attenzione, si imprime nella memoria e rivela una realtà nascosta. Dice Barthes a proposito: “Un dettaglio viene a sconvolgere tutta la mia lettura; è un mutamento vivo del mio interesse, una folgorazione. A causa dell’impronta di qualcosa, la foto non è più una foto qualunque. Questo qualcosa a fatto tilt, mi ha trasmesso una leggera vibrazione”.
E’ proprio il punctum Barthesiano che l’inglese Geoff Dyer coglie nelle foto di alcuni giganti del Jazz moderno per costruire la serie di ritratti di “Natura morta con custodia di Sax” – Instar Libri, 1993 (“But Beautiful” in originale). “Qualsiasi foto” – scrive Dyer – “nonostante colga un attimo infinitesimale della realtà, ha una durata percettiva che si estende per parecchi secondi, sia al di qua sia al di là del momento congelato dallo scatto, fino ad includere ciò che è appena successo e ciò che sta per succedere [...] le buone fotografie vanno dunque ascoltate non soltanto guardate […] Cosi attraverso la foto di Carol Reiff che ritrae Chet Baker sulla scena del Birdland, arriviamo a sentire non solo il suono dei musicisti pigiati sul piccolo palco racchiuso nell’inquadratura, bensì pure il brusio di sottofondo del locale ed il tintinnio dei bicchieri”.
E’ questo al mio avviso il fascino maggiore di questo libro, che lo distingue dalle molte “storie di jazz” già edite, l’aver ricostruito la vita di alcuni protagonisti del jazz “eroico” attraverso pochi ma emblematici episodi sui quali Dyer ha poi ricamato, improvvisato, come farebbe appunto un jazzista partendo da uno standard. Nel suo più riuscito ritratto, ad esempio, l’autore descrive le tribolazioni del raffinato sassofonista Lester Young, The President, richiamato alle armi nel 1944 e tormentato dall’ottuso tenente Ryan, osservando con malinconica ironia: “Se fosse nato trent’anni dopo avrebbe avuto dei gusti un po’ gay; trent’anni prima sarebbe stato un’esteta. Nella Parigi dell’Ottocento avrebbe potuto essere una figura decadente fin de siècle, e invece eccolo qui, incastrato a metà secolo, costretto a fare il soldato”.
Naturalmente dietro queste libertà che Dyer si prende c’è anche una profonda conoscenza della materia, già evidente con la scelta del grande Duke Ellington come protagonista della cornice che collega i diversi episodi: The Duke, figura che ha attraversato gli anni d’oro del jazz pur rimanendo però sempre estranea alle varie correnti e difficilmente catalogabile, durante un lungo tragitto on the road in compagnia del suo autista baritono per raggiungere il locale di un concerto, ha l’idea di dedicare una delle sue celebri suite ad alcuni musicisti jazz a lui contemporanei: Lo stralunato ed indifeso Lester Young (“Il sound di Lester era tenue e pigro […] la sua musica era una stola posata sulle spalle nude, senza peso ”), il goffo e selvaggio Thelonious Monk (“Buona parte del jazz sta nell’illusione della spontaneità e Monk suonava il piano come se non ne avesse mai visto uno prima”), la silenziosa follia di Bud Powell (“La musica non ti ha preso niente. E’ stata la vita a fare man bassa. La musica è quel che hai avuto in cambio, ma non era abbastanza neppure lontanamente”); l’esistenza vagabonda e cosmopolita di Ben Webster (“Interpretava le ballads cosi lentamente che si avvertiva il gravare del tempo su di lui. In un certo senso più era lento meglio era: aveva vissuto tanto e troppe erano le cose che doveva far entrare in ogni nota”); quell’uragano di creatività che era Charlie Mingus (“Quando usava l’archetto, il suono del contrabasso era come il mormorio di migliaia di fedeli raccolti dentro una chiesa”); il “white narcissus” Chet Baker (“Chet non metteva niente di sé nella sua musica, ed era questo a darle il suo pathos. La musica si sentiva abbandonata da lui”); il tossicomane galeotto, ma di talento, Art Pepper (“Ogni sua nota tende verso la consolazione del blues ed anche le frasi più semplici ti prendono al cuore come un grande requiem. Lui lo sa, ed è quasi certo di una cosa che ha rimurginato, sospettato e sperato per molto tempo. No il suo talento non l’ha sprecato rovinandosi a quel modo perché, come artista, la debolezza gli era necessaria: nella sua musica era un principio di forza”).
In definitiva un’operazione affascinante e riuscita questa che spero Dyer vorrà ripetere in futuro rievocando in questo modo, ad esempio, anche alcuni grandi leggende della musica rock, del passato naturalmente perchè oggi ormai, per citare un vecchio film di guerra, non è più tempo di eroi.
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