"Per me la cosa fondamentale è che il mostro è fuori, ma è sempre lì: è il vicino di casa. La vera minaccia sono i vicini."

Romero e gli zombi sono una cosa sola ma nessun film è più ambiguo di "Martin". La mitologia del vampiro è profanata, niente castelli e né lande desolate, solo uno squallido sobborgo della periferia in Pennsylvania dove un diciottenne timido e silenzioso è ospitato dal vecchio e anacronistico cugino Cuda che, imbottito di stupide credenze familiari, lo ritiene essere l'incarnazione di un vampiro ("...o ti salverò l'anima o ti distruggerò per sempre, Nosferatu!"). Secondo Cuda, Martin dovrebbe avere più di ottant'anni e temere la luce del sole, l'aglio e i crocifissi. Niente di tutto questo, lui non usa l'ipnosi o il magnetismo sessuale per stordire le vittime ma una semplice siringa per iniettare la droga e una banale lametta per tagliare i polsi da cui succhiare il sangue. La sua violenza non è quella di una creatura soprannaturale, ma di un ragazzo che lavora in negozio, va in chiesa e gioca con i bambini, è la violenza di una persona comune e pertanto ancora più mostruosa.

La regia di Romero è incentrata sulle atmosfere come potrebbe essere quella di chiunque altro si è avvicinato al genere, ma lui del genere se ne fotte e con la macchina da presa mostra la bruttezza ordinaria dei luoghi e delle persone che popolano il suo film. Martin, la cugina Cristina, la casalinga annoiata che cerca di sedurlo, sono facce prive di ogni fascino e pertanto ancora più disturbanti. L'ambiguità è ancora più accentuata dai flashback in bianco e nero che vedono Martin in abiti d'epoca che risponde ai richiami di una bellissima donna dal contrasto stridente con la mediocrità della vita e dei personaggi reali. Ci chiederemo se sono le memorie di un vampiro ottuagenario o le fantasie morbose di un ragazzo malato o ancora l'ennesima profanazione/omaggio al genere da parte di Romero.

Al riguardo ci sono due scene significative. La prima quando il vecchio cugino Cuda dopo aver tentato di far esorcizzare Martin esce nella notte a cercarlo nel parco. E Martin spunta dalla nebbia con tanto di mantello nero e finti incisivi da vampiro terrorizzando il vecchio che prega tremante con un crocifisso tra le mani, e solo allora gli svelerà la mascherata sussurrandogli che è solo un costume.

L'altra è quando s'introduce in casa della signora che ha scelto come vittima, credendola sola prepara la siringa per narcotizzarla ma la sorprende a letto con l'amante e la coppia stupidamente cerca di salvare le apparenze non rendendosi conto del pericolo mortale.

Alla fine Martin è destinato a morire come muoiono i vampiri, con il classico paletto piantato in mezzo al petto e questo semplifica tutto. Uccidendo Martin in quel modo esoterico eliminiamo la bestia che è fuori di noi, estrinsecata nell'altro e quindi ci purifichiamo.
Come dice Romero, il mostro è il vicino di casa ma la minaccia più grande siamo noi con la nostra ignoranza.

Un film che rimane "addosso": l'orrore del male non è più il risultato delle leggende del passato ma è la metafora della pochezza del presente, nel quale il bere sangue è la ricerca di un contatto in una società che respinge l'individuo "non allineato". E Romero, ad un anno dall'effettistico "Zombi", si giova del ristretto budget a disposizione e stavolta al concetto affianca lo stile. La pellicola sgranata, i colori saturi, i protagonisti anonimi rimandano a un maestro di ben altro genere, Gerard Damiano e i suoi porno "metafisici" dell'inizio degli anni settanta: "The Devil in Miss Jones " e "The Story of Joanna".

La versione italiana come al solito reca i suoi danni, taglia il film di dieci minuti, aggiunge le invadenti musiche dei Goblin e schiaffa il solito titolo a richiamare quello di un capolavoro del genere: " Vampyr" di Dreyer.

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