Odio Quincy Jones…
Capitava a volte che mio padre, ritirandosi a casa, portasse con sé qualche disco nuovo. Più che altro, mi ricordo di due casi (o meglio, a parte i numerosi dischi di Sinatra, gli unici degni di nota): “Live in New York” del buon Springsteen e una raccolta di tale George Benson.
Io dovevo avere intorno agli 11, 12 anni: il primo lo ignorai bellamente (me ne sarei pentito anni dopo); del secondo, mio padre ebbe a dire “boh, mi hanno detto che è un chitarrista” . Di chitarra ce n’ era ben poca, in quel best of, anche se dalla copertina e dal booklet pareva in effetti che questo tizio ci avesse avuto parecchio a che fare: riconobbi giusto “Give me the night”, perché la trasmettevano qualche volta alla radio come intermezzo, e poi lo gettai bellamente nel dimenticatoio. Mi ricapita sotto le mani anni dopo (pochi mesi fa): è pop anni ’80, puro e cristallino, però… però c’è qualcosa, qualcosa di diverso in quel modo di suonare la chitarra, nel mood di “This masquerade”, e soprattutto nell’ assolo con vocalizzi annessi di “Love ballad”. Cerco, trovo, scopro che il signore in questione è effettivamente un chitarrista jazz con due palle così, finito poi tra le sapienti (orrorifiche?) mani del produttore di Jacko, che lo ha portato alla ribalta della scena pop mondiale con l’album “Give me the night” dell’80. Ma quella, fortunatamente, è un’ altra storia…
Prima, negli anni ’60, Benson, ora attempato signore tornato su più congegnali lidi jazz, viaggiava a vele spiegate tra collaborazioni con gente tipo Wes Montgomery (di cui era ritenuto il più probabile erede), Stanley Turrentine e anche col divino Miles nel cielo, ed era particolarmente apprezzato per la sua capacità di unire una assoluta padronanza dello strumento con una velocità fantasmagorica, fantasia ed un eclettismo stilistico senza pari. Nel ’71 il nostro è nella scuderia CTI di Creed Taylor, e chiama con sé un certo Jack DeJohnette (non vi dico neanche a quale strumento), Ron Carter al basso, Clarence Palmer all’ organo, alle percussioni Michael Cameron e Albert Nicholson. Per fare che? Perché Benson lo sa, Miles lo ha detto con un doppio album, che la strada del jazz è aperta, aperta al rock, al funk, alle chitarre, al soul: la next big thing è la fusion. E come si può inaugurare un grande disco fusion? Eh eh… Vi piace la musica? Sì? Allora avrete in casa “Kind of blue”: bene, andatelo a prendere e mettetelo nel lettore, se non avete il dischetto in questione, procuratevelo (pazzi!). Tutti sanno come comincia: “So what”, Amen. Bene, riascoltatevi ‘sto popò di roba. Fatto?
Bene, ora prendete l’album che sto recensendo, e fatelo partire. Benson e la sua cricca di pazzi sacrileghi prendono la composizione davisiana e la sbattono, la maltrattano, la strapazzano, la rivoltano fino a renderla irriconoscibile, con quella partenza con un basso profondo, che si sobbarca il compito di mostrare il tema, DeJohnette che si scatena alle pelli e l’organo che dipinge scenari fumosi, oscuri, che mostrano l’anima nera racchiusa in questo brano, spingendolo in territori vicini al funk e al soul, lontani dall’aria swingante, notturna e terribilmente di classe del capolavoro davisiano. Fino all’arrivo del buon Benson, che ricama riff su riff, nota su nota, il tutto con una logicità ed una chiarezza d’idee insperata, dimostrando, come se ancora ce ne fosse bisogno, quanto la chitarra sia uno strumento versatile e tranquillamente utilizzabile anche in genere dal quale abitualmente è stata esclusa qual è il jazz. This is fusion. E come in ogni standard jazz che si rispetti, la pre-chiusura è affidata alla sezione ritmica, con Carter e DeJohnette che si inseguono, rotolano, lottano in un duello che pare senza fine, i due sembrano sempre sul punto di placarsi, salvo poi tornare, placidamente eppure vigorosamente a combattere, sino al finale con tema ad libitum, che prima però si contorce su se stesso come un serpente. Potrebbero bastare questi 9 minuti e venti a dare un senso a quest’album.
Invece, ascoltare perle come “The gentle rain” fa bene all’anima, e, parliamoci chiaro, farlo in riva al mare fa terribilmente cool: sentite quant’è sensato eppure sentimentale, senza patetismi, quel fraseggiare di Benson, ogni nota al posto giusto, crea quell’impalpabile atmosfera di fine estate che non so spiegare, poi l’organo spinge il pedale sul territorio di memorie felici, che sopraffanno sempre più l’ascoltatore, fino al ritorno di una calma soddisfatta col tema centrale. Ah… “All clear” è quasi un divertentissement del nostro, il punto è che fa divertire pure noi: anticipa certe sue intuizioni, oltre a mettere in risalto, ancora una volta, la sua incredibile abilità tecnica, oltre che la qualità della sezione ritmica che lo supporta; insomma, vi ritroverete facilmente a far finta di avere una chitarra in mano a fare facce da guitar hero consumato. “Ode to a Kudu” è un’altra gemma: ricorda certi paesaggi, ariosi, soleggiati e malinconici, descritti da Paolo Conte, perso tra milonghe e blue Hawaii, a dream in a dream, con una chitarra sognante che traccia le linee di un disegno che spetta a noi colorare. Gemma nella gemma.
Infine, “Somewhere in the East” ci porta appunto verso mondi orientali o comunque esotici, verso ambienti onirici e selvaggi, tra bestie anomale che si agitano nell’ aria e suoni di oscura provenienza dipinti dagli strumenti musicali, che, nel brano forse più sperimentale dell’album e che rimanda a certe atmosfere mingusiane, si agitano sbilenchi verso una conclusione che sembra essere più che un addio un arrivederci, perché i nostri sanno che ritornete presto sui loro lidi, a risentire le loro meraviglie jazz rock. Un gioiello da disseppellire insomma, roba che potrebbe far piacere la fusion anche a certi puristi, un’opera non sconvolgente né rivoluzionaria ma che dà gradualmente assuefazione. Un’opera che rischiavo di non arrivare mai ad ascoltare, perché sepolta nel passato di un autore che, complice la Warner, di lì a sei anni passerà ad album più smaccatamente pop, che ci hanno fatto perdere, come dice il booklet, “his lucid and adventorous playing” .
Per questo odio Quincy Jones.
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