In cosa si è trasformata la politica? Una domanda retorica, che ricorre spesso nell'opinione pubblica, soprattutto negli ultimi decenni, quelli degli scandali generalizzati, della collusione Stato/criminalità, delle crisi economiche, politiche, diplomatiche. I decenni del potere come visibilità, come "scettro" per dominare il popolo sempre più impoverito da scelte a volte impopolari e inevitabili, altre volte volutamente indirizzate a colpire la "massa". Un mondo difficile e contradditorio quello della politica: un mondo che il patinato e discusso George Clooney ha deciso di descrivere, almeno nelle sue forme più semplici e superficiali, nel suo quarto lungometraggio, "Le idi di marzo", giunto nelle sale italiane nel dicembre del 2011.

Tratto da una piece teatrale di Beau Willimon, la pellicola di Clooney racconta l'avvicinamento del governatore Mike Morris (George Clooney) alle primarie del partito democratico contro il rivale Pullman. La campagna elettorale di Morris è architettata dal giovane Stephen (Ryan Gosling) e da Paul (Philip Seymour Hoffman), mentre quella di Pullman è "disegnata" da Tom (Paul Giamatti). Nomi che compongono un cast di primo livello e che contribuiscono inevitabilmente a rendere "Le idi di marzo" un film corale, la cui figura più importante è quella interpretata da Ryan Gosling, di nuovo ottimo dopo aver dimostrato le proprie capacità già nel pluriosannato "Drive" del danese Refn. Da segnalare la buona prova anche della bellissima Evan Rachel Wood e la presenza nei panni di una giornalista del Times di Marisa Tomei, l'indimenticabile Pam di "The wrestler".

Il film di Clooney, al di là dei famosi pregiudizi sul suo conto, delle sue azioni da gossip man, è un'opera cinematografica che sa il fatto suo, ma che pecca in alcuni punti. Se infatti l'impianto è quello di un thriller dai tratti atipici e "rallentati", l'aria globale che si respira appare in alcuni punti troppo superficiale, abbassando il tono complessivo della pellicola. E' il caso delle sequenze che hanno come protagonista lo stesso Clooney, irrigidito nella faccia da politico piacione medio, che poco o nulla aggiunge allo svolgimento del film. Daccordo, Clooney si è auto-ritagliato un ruolo secondario, ma il suo personaggio appare come quello meno convincente. Discorso simile anche per Philip Seymour Hoffman e Paul Giamatti, che nonostante le loro ottime interpretazioni, si vedono fin troppo poco sullo schermo: avrebbero meritato maggior considerazione. Pecche formali che vengono compensate dalla bravura di Clooney nel non trasformare la vicenda in un salmo sulla schifezza della politica et similia. Il regista del Kentucky fa trasparire quelle che sono le sue idee politiche, ma queste non diventano mai l'oggetto del film e rimangono in secondo piano. Ciò che preme a Clooney è farci vedere come ad essere corrotto non sia il mondo politico "istituzionalizzato", ma già gli ambienti che ne sono alla base: è fin dai giovani che si attivano per sostenere un candidato, che si avvia quel processo di perdita della dignità che porta coloro che vivono in questo campo a pugnalarsi alle spalle, anche tra persone con la stessa visione politica, anche tra amici. Pugnalate alle spalle, una pratica ricorrente e già conosciuta nel corso della storia...

Tre pallini e mezzo.

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