Non cito la famosa analogia che George Harrison utilizzò per descrivere il naturale processo creativo che portò alla composizione di "All Things Must Pass", ma l'immagine di qualcosa che veniva improvvisamente liberato rende bene l'idea. Il fiume liberato scavò solchi resi eterni su di un triplo vinile che divenne leggendario. Nel 2021 il figlio Dhani ha curato la riedizione del primo vero lp solista del padre concentrandosi sulla qualità del suono, rinvigorito, sullo spolverare l'architettura barocca del cesellatore Spector ma soprattutto rendere disponibili ufficialmente i demo, le alterantive takes e gli inediti di quel mastodontico processo creativo. Spector registrò tutto fin dall'inizio, catalogò ogni giorno quindi non è stato difficile spulciare l'archivio in cerca di materiale interessante. Negli ultimi anni la critica ha iniziato a storcere un po' il naso verso certe operazioni di ristampa e archeologia musicale, spesso considerandola una serie di operazione atte a dare un poco di ossigeno ad un'industria refrattaria al cambiamento e ormai tornata in modo preoccupante a livelli pre rock'n'roll per quanto concerne l'investire sugli artisti e produrre cose nuove. Bisogna però riconoscere che operazioni di "scavo archeologico" come queste a distanza di cinquantanni sono importanti e aiutano gli storici a capire meglio il periodo, molto travagliato in questo caso, in cui è stata realizzata l'opera. Il box quidi non è solo operazione, giustamente, commerciale ma è utile a chi si vuole immergere sino in fondo all'interno dell'opera. Fatta la premessa, la sostanza è che nei 3 dischi aggiuntivi Dhani Harrison ci regala i provini a tre di suo padre con Klaus Voorman e Ringo Starr, il giorno uno in qui le canzoni sono grezze ma riflettono la luce in modo pulito e permettono di scorgere ciò che sarà alla fine il risultato. Il 1970 per Harrison è l'anno della prima collaborazione con Dylan (qui l'inedita "Nowhere to Go") e con il nucleo da cui nasceranno i Derek and the Dominoes di Clapton, presente al suo meglio nelle sessions prima che l'amore ossessivo verso Pattie Boyd lo conducesse al nadir personale immerso in alcol, droghe e solitudine. La solarità delle versione dimostrative è sorprendente, la stessa title track già provata più e più volte con i Beatles qui sembra un qualcosa di completamente nuovo. George Harrison appare all'ascoltatore sicuro e sereno, ha il suo materiale e sa che ne deve uscire almeno un doppio album. La Apple vorrebbe spezzarlo in due in modo da non bruciare tutte le canzoni subito ma il beatle spirituale si dimostra intransigente: doppio e poi triplo con le jam sessions che molta critica snobba additandole a mero esercizio stilistico.
Nel 1969 George Harrison era già un corpo estraneo ai Beatles, il documentario torrenziale "Get Back" mostra in modo chiaro la fine di un gruppo e la nascita dei percorsi autonomi dei membri ormai sicuri delle proprie strade da percorrere. Tralasciando tutti i dissapori personali che accompagnano le tre teste pensanti del gruppo almeno sino al 1973 è innegabile che il 1970 abbia regalato quattro lp solisti molto diversi tra loro, scritti e composti in situazioni psicologiche peculiari e spesso agli antipodi come nel caso di Lennon e McCartney. Harrison dietro il suo barbone era perà sostanzialmente felice, libero.
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