Chitarrista per l'epoca piuttosto dotato, e anche per questo spesso relegato dai ben più illustri compagni McCartney e Lennon a un ruolo di mero strumentista, cantante dal falsetto abbastanza particolare e riconoscibile, George Harrison aveva iniziato presto a comporre e cantare proprio materiale coi Beatles. Materiale che spesso svolgeva il difficile se non, dato che il gruppo in questione erano i Beatles, quasi impossibile compito di completare, riempire i 33 giri della formazione. Compito ingrato anche, perché George come compositore non era malvagio, anzi, in qualsiasi gruppo non avrebbe sfigurato, e di fatti non sfigurava. E però, e però non era mai ai livelli dei due compari: alzi la mano quanti di voi conoscono canzoni di George coi Beatles dei primi anni! Ci sono fortunatamente le eccezioni, come "If I Needed Someone"o "Taxman". Ma George non emergeva. Continuò a galleggiare trainato dal successo mondiale, risplendendo di luce non sua, cosa che lo frustrava terribilmente. Si tolse qualche soddisfazione ulteriore facendosi riconoscere come il Beatle più spirituale, quello più attento anche musicalmente alla brezza che giungeva dall'Oriente, improvvisandosi con discreti risultati musicista di sitar. Insomma, come Brian Jones, un comprimario di tutto rispetto e piuttosto prezioso in studio di registrazione, ma pur sempre un comprimario.

Sennonché, tra il 1968 e il 1969 George dimostrò a se stesso e agli altri di non essere solo un comprimario. Ispirato dai viaggi in India, iniziò a sviluppare un songwriting, uno stile diverso rispetto al resto del gruppo, più spirituale e delicato in alcuni casi, tremendamente corrosivo e sardonico in altri. Poco avezzo alle silly love songs, come pure agli slogan politici, partorì alcuni gioielli come "While My Guitar Gently Weeps", "Long Long Long", "Old Brown Shoes, "Here Comes The Sun" e "Something", quest'ultima beffarda rivincita nei confronti dei Beatles: primo e unico hit-single del gruppo a portare la sua firma, considerato uno dei loro classici assoluti e ironicamente definita qualche tempo dopo da Frank Sinatra "come il miglio pezzo di Lennon e McCartney". Chissà come se la prese George, che ne aveva già ingoiate tante. Fatto sta che di lì a breve George assistette alla sua personale liberazione da quella prigione chiamata Beatles con un misto di prevedibile entusiasmo, quanto di forse altrettanto prevedibile sindrome di Stoccolma: alla fine del 1969 fu convinto dall'amico Eric Clapton, che aveva appena visto naufragare i suoi Blind Faith, a imbarcarsi nella sua avventura di quel momento, un tour inglese con il popolare (allora) duo Delaney And Bonnie (Delaney Bramlett è tra l'altro scomparso pochi giorni fa). Le cronache del tempo parlano di un Harrison che si presentava, dopo anni di lontananza dal palco, a voler usare un eufemismo, timido e un pochetto impacciato, il più possibile lontano dalle luci e schivo nei confronti di un pubblico esaltato e strabiliato alla visione, ad un concerto di un tutto sommato effimero gruppo dell'epoca, di niente di meno che un Beatle. Fu così che agli inizi del 1970, chiusi apparentemente i conti con il pesante fardello beatlesiano, George iniziò a muovere i primi passi verso il suo vero esordio solista -aveva in realtà già pubblicato due album di musica sperimentale. Per prima cosa, pensò bene di reclutare Phil Spector, leggendario produttore del sound americano anni '60, in quel momento impegnato prima a produrre le controverse session di Let It Be e poi alcuni album solisti dei Fab Four. Scelta peraltro significativa: i Beatles, con il loro produttore George Martin, avevano contribuito a innovare radicalmente la musica dell'epoca. Scegliere Spector significava ripudiare il recente passato, per tornare alle origini, al rock'n'roll, a quel Muro del Suono che aveva caratterizzato i miti giovanili dei Beatles. Inoltre, George pensò bene, per rendere le cose più facili e tranquille, di circondarsi di una moltitudine di amici musicisti: ovviamente Eric Clapton (che peraltro nello stesso periodo stava intrecciando ad insaputa di Harrison, una tormentata relazione con la moglie di quest'ultimo) con la sua band (nient'altro che i Derek and Dominos), e già che c'era, l'unico vero amico dei tempi passati, ossia Ringo Starr. E poi tanti altri: Klaus Voorman al basso, Gary Brooker e Gary Wright alle tastiere, Billy Preston all'organo, Pete Drake alla pedal steel, Dave Mason alla chitarra, Bobby Keys al sax e Jim Price alla tromba e altri ancora; alla fine, complice l'infinita richiesta di manovalanza richiesta dalla produzione di Spector (come ironicamente e realisticamente descritto da Harrison, il folle produttore necessitava a ogni seduta di qualcosa come due o tre chitarre acustiche, due batteristi, tre tastieristi per riempire il suo Muro di Suono) finirono per infiltrarsi una moltitudine di sconosciuti alcuni dei quali destinati a un luminoso futuro, come un giovanissimo Phil Collins che si ritrovò suo malgrado a suonare le congas in "The Art Of Dying". Ma la cosa più sorprendente, fu l'immensa mole che assunse il lavoro tutto. George disponeva di un discreto numero di pezzi accumulati negli ultimi due anni coi Beatles (di "All Things Must Pass" e "My Sweet Lord" e forse qualcosa altro si può trovare qualche traccia in quell'immenso calderone delle session di Let It Be), per cui la sua intenzione era di ricavarci un disco singolo. Sennonché, il clima di rilassatezza e di confidenza venutosi a creare durante le sedute lo portarono, lui che mai era stato particolarmente prolifico come autore, a scrivere di colpo un gran numero di pezzi, tutti di ottimo livello. Non stupisce quindi che l'album in corso di lavorazione da singolo divenne doppio. No, a stupire è come divenne pure triplo. A contribuire alla riuscita del disco abbiamo detto era stata la confidenza e l'amicizia tra i musicisti, una solidarietà che si era corroborata di lunghe e divertenti (anche nei titoli: "Thanks For The Pepperoni"!) jams del tutto improvvisate. George, in omaggio a questi divertissments e agli amici che gli erano stati vicini, pensò bene di farci un terzo disco (ma fu molto onesto, dato che vendette l'album al prezzo di uno doppio invece che triplo), cosa peraltro leggermente insolita (Frank Zappa a parte!) anche per anni come quelli in cui eccessi discografici e assoli interminabili erano tutto sommato diffusi e anche graditi.

Parlare di questo album e della sua storia (ad avviso di chi scrive comunque bellissima), senza dire nulla della musica che vi è contenuta, sarebbe ingiusto. La cosa più sorprendente è l'estrema varietà di stili: c'è il country-rock con sfumature californiane che risente della recente svolta "Nashville style" dell'amico Dylan (di cui propone una cover, "If Not For You", e con cui compone il sognante pezzo che apre le danze, "I'd Have You Anytime", senza dimenticare la struggente "Behind That Locked The Door"), tracce di folk-rock ("Ballad For Sir Frank Crisp", vera e propria dichiarazione d'amore per la sua dimora, e "Apple Scruffs", divertente omaggio alle fans che lo attendevano fuori dallo studio di registrazione, e che lui faceva entrare per sentirle dare un'opinione sui pezzi, offrendole il tè), pezzi che lasciano trasudare il clima di improvvisazioni ("Wah Wah"), lente ballate (le due "Isn't It A Pity?", "Beware Of Darkness", la title-track) e rock-blues più virulenti e talvolta festosi ("What Is Life?", "Let It Down", "Hear Me, Lord"). Inaspettatamente invece non compare la minima influenza musicale della passione di Harrison per la musica indiana, ma solo un concentrato di spiritualità che emerge in buona parte dei pezzi, come facilmente si può comprendere dai titoli di molti di essi, spiritualità affiancata tra l'altro, come nella migliore tradizione del Nostro, da un certo gusto per una dissacrante ironia che a volte sconfina nel caustico. Infine Lei, il pezzo della discordia, consegnata agli annali come la capostipite dell'Amministrazione Giudiziaria Musicale. Per alcuni un pezzo forse simile a qualcun altro, ma non troppo. Per altri, un plagio bello e buono di "He's So Fine", un vecchio successo delle Chiffons. "My Sweet Lord" non trova opinioni unanimi al riguardo. Resta forse anche per questo il pezzo solista più famoso di Harrison, ma negare le sue qualità musicali è inopportuno. A ciascun ascoltatore l'ardua sentenza. Va detto che per chi scrive, aldilà di un'evidente somiglianza, resta un pezzo trascinante pur nella sua semplicità, bello e piacevole, ma assolutamente non il più bello di tutta l'opera, che contiene gemme di ben più elevata caratura.

Quando nel novembre 1970 uscì, "All Things Must Pass" sorprese praticamente tutti coloro che mai si sarebbero aspettati un esordio triplo e pure tutto di ottimo livello da lui, George, "The Quiet One" dei Fab Four, quello confuso da Sinatra, quello che per registrare "While My Guitar Gently Weeps" aveva dovuto (anche lì!) chiamare dei fidati amici, visto che i Fab si erano rifiutati. Il successo, di critica e di pubblico, fu enorme, "My Sweet Lord" fu il primo pezzo di un Beatle solista ad arrivare in cima alle classifiche. Ma il Destino giocò duro con "All Things Must Pass" e con George. Primo, qualche anno dopo arrivò l'infamante trafila processuale già citata. Secondo, George pur registrando ancora qualche buon album, non raggiunse mai più le vette artistiche di questo illustre predecessore. A mantenere alto il valore di quest'opera non fu poi nemmeno d'aiuto l'esagerata, sovrabbondante produzione di Spector, destinata nel giro di un paio di lustri a passare di moda. Se poi si aggiunge una disastrosa qualità, dal punto di vista della resa del suono, della prima edizione rimasterizzata su cd, è ben immaginabile come "All Things Must Pass" divenne una specie di tesoro nella vecchia edizione su vinile di qualche babbione appassionato. Con il tempo però le cose si sono riequilibrate, "All Things Must Pass" ha riacquistato il suo valore artistico, grazie anche a una bella edizione del trentennale curata personalmente dall'allora ancora in vita George, da me fortemente consigliata in alternativa al buon vecchio vinile, con tanto di divertenti e nostalgiche note di copertina dell'autore e di fotografie dell'epoca, oltre a delle bonus tracks, alcune interessanti, altre meno.

Tutte le cose devono passare, ma non proprio tutte.

Carico i commenti...  con calma