Un uomo in copertina che si annusa l'ascella. Barba lunga ma non troppo, curatissima. Orecchino con crocifisso annesso. Occhiale Ray-Ban. Giubbottone modello fonzie-vintage. Un nome, George Michael, Giorgio Michele, un nome d'arte misto tra Boy George e Pino Daniele. Cinque simboli allineati che rappresentano forse il nome dell'artista, a mo' di Led Zeppelin IV. Siete di fronte a uno dei più grandi miti viventi degli anni '80.
Di famiglia cipriota, Georgius Kyriacos Panayiotou (forse traduzione di "paninaro" in greco) aveva capito sin da adolescente che il destino del quasi conterraneo Cat Stevens (conversione islamica esclusa) era nelle sue vene. Mentre lavora al ristorante dei genitori nella Londra più periferica, s'inventa il mestiere di DJ da alternare a quello di cameriere. Arriva a lavoro coi dischi di casa, Marvin Gaye, Elton John, Paul McCartney, Stevie Wonder, e tra una portata e l'altra si mette le cuffie per deliziare i ruspanti clienti del locale. Scrive canzoni sugli autobus, a scuola, e intanto conosce Andrew Ridgeley, sì, il magnifico prototipo del biondino degli 883. I due infatti formano già al liceo un primo gruppo, gli Executives, dove George scrive, canta, suona le basi. Andrew si limita a suonare la chitarra e a fare qualche coretto (in playback). Diventeranno nel giro di pochi mesi gli "Wham!", reucci del dance-pop dei primi '80. Solo i Duran e gli Spandau sembrano tenere testa alla crescita commerciale del mini-gruppo, che con "Make It Big" (1984) e giganteschi hit come "Wake Me Up Before You Go-Go" e "Last Christmas" diventa un fenomeno di primo livello. Inoltre Giorgio non perde occasione per dimostrare il proprio talento, partecipando al singolo benefico "Do They Know It's Christmas" (sì ha il pallino del Natale), al "Live Aid" e stringendo collaborazioni con idoli come Aretha Franklin e Elton John (George canta in "Ice On Fire", Elton suona in "Music from the Edge of Heaven" e gli dà anche le prime lezioni di buon sesso gay).
Nel 1986 all'apice del fanatismo per la novella boy-band i due decidono di sciogliere l'azienda dopo il memorabile tour in Cina (i primi occidentali a farlo, mica pugnette) e il trionfale concerto d'addio a Wembley davanti a più di 200.000 anime. Mentre Andrew giustamente scamparirà presto nel nulla dopo un paio di tentativi discografici inascoltabili, George inizia la scalata all'olimpo del pop. Si opta quindi per un vistoso cambio d'immagine, che renda George ancora più appetibile commercialmente e come sex-symbol, cucendogli addosso un look apparentemente più adulto e straordinariamente riuscito. Quel che tentano ogni tre anni le Spears, le Aguilere, i Ricky Martin della situazione qui è stato realizzato a sommo studio. Tolte le mitiche t-shirt con lo slogan "Choose Life", tolta la chioma fluente e ossigenata e i completi alla Miami Vice, abbiamo davanti a noi un prototipo di neo-Elvis, rude, terribilmente maschio fino alla tamarraggine, gli stivali da cowboy con la punta d'acciaio, il jeans logoro che sculetta incessantemente. Questa l'icona che ci appare davanti in questo esordio da solista, intitolato "Faith", della serie "abbiate fiducia".
Dalle vendite, che ne fecero uno dei più grandi best-seller del decennio, secondo solo a Thriller e quasi a pari merito con Purple Rain, il monito è stato pienamente accolto. L'album inizia on un organo da chiesa in lontananza che ripercorre maestosamente (almeno ci prova) il ritornello di "Freedom", motivetto retro-soul che era stato l'ultimo grande successo del duo (poi notoriamente plagiato dai fratelli Gallagher). E qui la messa del pop ha inizio. Bruscamente le note vengono interrotte dall'arrivo di una scarna chitarra country che si staglia sulla voce del cantante, graffiante e aggressiva come non mai, e un ritmo sincopato e genuino che vuole darci l'impressione di un omaggio al rock'n'roll di una volta.
Come dire, trent'anni dopo il re di Memphis, è arrivato il nuovo profeta della musica leggera. In fondo non è andato molto lontano da questo sogno George Michael, confezionando con cura certosina e grande impegno la svolta che doveva portare verso l'età adulta un promettentissimo 24enne. In effetti l'artista in questione, nonostante le mille ambiguità, distrazioni e insicurezze in cui si è impantanato nel corso degli anni successivi era e rimane un genietto del pop. Non soltanto perché non si può chiamare altrimenti chi scrive a 14 anni canzoni valide come "Careless Whisper", ma per l'aria di novità e creativa spavalderia che ha portato in quegli anni dominati - commercialmente - da gente come Nick Kamen, Isle Bonite varie, Bangles scoppiate, e magari bellimbusti alla Den Harrow.
La forza di Michael non sta solo nell'esplosiva e accurata immagine che propone, ma nella MUSICA. La genialità brilla nella sua straordinaria capacità di sintesi di tutti gli elementi validi dei trend degli ultimi decenni, immagazzinati in una mente giovane e fantasiosa che sa reinterpretare e rivitalizzare in uno stile personale e fruibilissimo soul, synth pop, r'n'r, il funk più morbido, folk, rock beatlesiano e altro ancora. Tutto viene filtrato in un dance-pop fatto per essere usato ma non consumato, né dimenticato. E' la dimostrazione dell'arte di produrre canzoni che devono essere vendute tanto, ovunque, in fretta ma anche per lungo tempo. "Faith" ci mostra un talento eterogeneo, che sa rivoluzionare le correnti del mercato discografico, proponendo dannunzianamente sempre il prodotto migliore, quello più avanti, l'avanguardia per il consumatore. "I Want Your Sex", proposta nelle sue part I, II, o III, è un simbolo: dalla preistoria di "I Want To Hold Your Hand" (Beatles) o "Let's Spend The Night Together" (Rolling Stones) siamo arrivati praticamente a "Dammela/o". George riscrive le convenzioni del pop con un inno alla sessualità più immediata e godereccia, un "5 Maggio" dell'arrapamento umano. I testi sono elementari, ma filano che è un piacere, sono semplici ma adatti. E la voce. George Michael, è innegabile, ha una delle più belle, calde, espressive voci mai apparse su disco. E' potente, impetuoso, invitante, sa coinvolgere e attirare con maestria sia l'auditorio femminile che quello maschile (a quanto pare anche troppo). E' la voce perfetta da mandare in vetta alle classifiche, ma anche ideale per la stravaganza più chic. Qui ci stupisce ad esempio con quella che forse è una delle più belle canzoni del disco, "Kissing A Fool". Forse è solo un esercizio di stile, un divertissment, ma chi sarebbe stato capace di inserire un'impeccabile diamante jazz-swing in un album del genere? E comunque tutto suona senza difetti, riprovato milioni di volte, cori, chitarre, battiti di mani, batteria, Michael si autocampiona all'infinito diventando un curioso e inventivo polistrumentista a cui viene lasciato piena autonomia sul risultato finale.
E non potrebbe essere altrimenti: "Faith" è il sogno di ogni produttore-volpone, di ogni casa discografica, di ogni Mtv, ma soprattutto di ogni buongustaio del "puro pop".
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