Chi poteva mai intitolare un brano “Jesus To a Child” se non lui, il Lucio Dalla d’Inghilterra, il Franti dall’infame sorriso, il genio che non fu incompreso, anzi, lo comprendemmo fin troppo, Georgios Kyriacos Panayiotou più comunemente George Michael?
Libero da compromessi e padrone di sé stesso fin dagli esordi, autore dei testi, delle musiche, quasi sempre coinvolto alla produzione e nell’approccio agli strumenti, arrivò al 1996 trentatreenne con già alle spalle un gruppo consumato e pluridorato con l’amico Ridgeley, due album di cui uno (Faith) che si annovera come uno degli esordi più remunerativi di sempre e l’altro (Listen Without Prejudice - Vol 1) meno impattante ma comunque epocale e con incetta di premi al seguito, battaglie legali con la Sony perché a lui comunque non bastavano i risultati ottenuti, concerti live in cui palesava una voce altisonante, spontanea, mai incerta, esplosiva e armonica su più ottave, tanto da indurre i Queen a cercarlo dopo la dipartita di Freddy per celebrarlo, ma lui si prestò giusto il minimo, per rispetto. Era fatto così.
Poco prima di raccogliere le forze per preparare “Older”, perse, nel 1993, l’amore della sua vita, Anselmo Feleppa. Da qui nacquero “Jesus To a Child”, in cui figura lo sguardo sorridente del compagno perso, e “You Have Been Loved”, dove racconta di un giorno in cui incontra la madre di lui al cimitero. Nel 2004 arriverà “Send Me an Angel”, che chiude il trittico. Chi vi scrive non l’ha mai sviscerata perché non la ama.
“Older” giunse a sei anni dal predecessore in una bruma di oppiacei debitamente rollati da un impiegato assunto apposta, con un Michael eterogeneo, fisicamente in forma (si beh, a parte la coltre di fumo levatasi tra i master, ndr) che sforna 11 brani onesti, di cui alcuni di rarefatta qualità organolettica, altri meno, altri rivedibili. Ma la struttura regge su basi solide.
Le travi sono senza dubbio le morbide e dolorose trame dei lenti. “Jesus To a Child”, “Older”, “To Be Forgiven” e “You Have Been Loved” sono davvero pietre miliari, se prese come metro di paragone nel catalogo dell’artista, che non è vastissimo.
Prodotte con abbondanza di archi e synth, brillano di luce propria e hanno come comune denominatore la solitudine, per questo viene facile, forse scontato, il paragone con il compianto Dalla. Non è commiserazione: è una ricerca quasi metodica del dolore, non per soffocarsi, ma quanto basta per avere quella sofferenza che ammorba, che crea l’aura per comporre e quasi sempre ne escono capolavori.
In termini propriamente club, il disco accelera solo in occasione di “Fastlove”, che è radiofonica, sexy e 'michaeliana' al punto giusto. Accontenta anche l’ascoltatore più distratto, insomma.
Discorso a parte merita “The Strangest Thing”, altra perla incastonata, che non è un lento ma nemmeno un disco number, bensì pura introspezione.
Come tutti i geni, o meglio, come tutti i serial killer, George lasciava sempre una traccia. Ormai sapevi che il prossimo album di inediti sarebbe uscito secoli dopo (infatti “Patience” arriverà nel 2004 ndr) e allora iniziavi a chiederti: nel frattempo con chi se la prenderà? Cosa combinerà? Chi si scoperà? Si scoperà un poliziotto, due anni dopo, in un bar; verrà beccato, arrestato, e messo ai lavori socialmente utili. Non si scomporrà: tra una spazzata all’atrio ed una raccolta differenziata, inizierà a fischiettare un motivetto, lo troverà fico, lo metterà su traccia, lo chiamerà “Outside” e sarà un altro successone. Chi è già che partoriva successi fischiettando? Ciao, Lucio.
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