Estate 1942. Dopo aver messo da parte Moskva, da attaccare a data da destinarsi, i tedeschi schiacciano ogni resistenza nemica puntando verso l’area meridionale dell’Unione Sovietica. La capitale verrà magari colpita alle spalle a tempo debito. La Crimea è ormai avvolta dalle svastiche e gli alpini di Germania possono poltrire sull’Elbrus. L’Armata Rossa è costretta a ritirarsi combattendo, trovando però il tempo di lasciare una amara sorpresina alla Wermacht: far saltare in aria i giacimenti petroliferi di Groznij e Majkop, su cui i “Fritz” contano per l’avanzata trionfale verso la Città di Stalin. Alcune divisioni di panzer rimarranno a secco praticamente impossibilitate a continuare la marcia. Dopo la caduta di Rostov il tiranno aveva emesso il micidiale ordine numero 227: “Ni shagu nazad! – Non un passo indietro!”. Proibito arrendersi e tanto meno disertare. Ogni azione di battaglia diventerà una pericolosa corsa ad ostacoli dove chi riesce a tagliare il traguardo deve, doverosamente, accendere un cero a San Basilio. Non c’è quasi alternativa alla morte. Nessuno a proteggerti la ritirata, anzi. O i proiettili dei tedeschi o il fuoco relativamente amico dell’NKVD.

Dall’Italia, l’ignobile ducetto, non contento del disastro rimediato con il CSIR, pur di non rimanere a bocca asciutta spedisce 229.000 elementi della meglio gioventù tra le vette del Caucaso. Hitler, che contro Stalin ha orgogliosamente mandato in campo la rosa dei titolari non ha bisogno di ingombranti riserve. Gli insopportabili “manciaspachetti” verranno dirottati sull’ansa del Don a combattere nella steppa con scarponi chiodati, bare di ferro e cannoni dalla gittata a campanile. Geniale.

Il 23 agosto 1942, la città sul Volga viene triturata da almeno 2.000 incursioni aeree della Luftwaffe, che decreteranno il primo grave errore strategico del Fuhrer: i panzer non potranno avanzare tra quelle macerie che diventeranno limo fecondo per i cecchini russi. Zajcev docet. Tra agosto e novembre, il 90% dell’area urbanistica di Stalingrad, ormai quasi completamente cancellata dalla faccia della terra, cadrà nelle mani dei crucchi. All’Armata Rossa rimarrà un imbarcadero, qualche settore dell’area industriale e le forre che ornano il versante orientale del fiume. Da difendere malgrado gli altissimi oneri da pagare.

Dalle feritoie di argilla i logori masticatori del pestilenziale kuritel’na mahorka sono costretti ad un quotidiano, terrificante spettacolo. In merito, un ufficiale tedesco dirà che: “…Stalingrad non è più una città. Le strade non si misurano più a metri ma a cadaveri. Di giorno è un’enorme nube di fumo accecante degli incendi: una vasta fornace illuminata dal riflesso delle fiamme. E quando scende la notte, i cani si gettano nel Volga e nuotano disperatamente verso l’altra sponda…”. Ed è in questo girone infernale che l’Armata Rossa organizzerà la poderosa controffensiva. Se a Stalingrad il tempo è sangue, vuol dire che non c’è altra terra al di là del Volga.

Georgij Zelma non vuole fare un passo indietro, pur non essendo avvantaggiato come i soldati che affianca nei contrattacchi. Loro hanno almeno un Mosin-Nagant e cartucce da lanciare con precisione contro un vento d’acciaio, lui una Leica e rullini da proteggere al calore della morte. Per ogni centimetro quadrato conquistato, porti a casa una zolla di terra e qualche goccia di sangue. Se al quadrato riesci a moltiplicarci un metro, guadagni un fazzoletto che raccoglie un triste mosaico di fango, ferro, cemento, qualche bossolo graffiato ancora fumante e nella più probabile tra le ipotesi un corpo inerte che tenderà a raffreddarsi dopo un urlo strozzato che può ricordare solo il lamento del cigno.

Ed è in questo contesto che il coraggioso Zelma scatta, in ogni senso. Mediante pressione dell’indice destro o con la propulsione degli Achilli per accarezzarsi la pelle in salvo dietro un muretto informe al sibilo dei lampi tedeschi. Gli uomini con l’andatura di chi si impegna a schivare sono gli attori di uno scenario spettrale. Spuntoni in muratura ricordano le radici di un quartiere sbriciolato dalle bombe. Scheletri di cemento resistono per il solo scopo di fungere da macabra scenografia. Correre su un terreno così accidentato è impresa assai ardua ma è necessario fare in fretta. Ogni passo in avanti è un pezzo di terra recuperato. Le vasche da bagno diventeranno giacigli per tiratori scelti e le spalliere dei letti delimiteranno le fosse comuni sovietiche quando verranno coperte dalla neve annerita dai fumi della polvere pirica. Le fogne non saranno mai più così popolate, i bambini continueranno a fare il girotondo tra i coccodrilli e i topi correranno di notte sui solai a schiera per rosicchiare il nemico alle spalle il giorno successivo.

Intanto dall’area settentrionale della città, Zukov lancerà il fendente destro per attanagliare il nemico. Da sud, la debole protezione acquattata sul Don verrà facilmente espugnata dalle armate di Vasilevskij costringendo i reparti italiani ad una rovinosa ritirata. I meno fortunati si addormenteranno camminando sotto i colpi del “Davai! Bystro!”. La famigerata VI Armata tedesca verrà accerchiata e inani saranno i tentativi di liberarla. Tra le velleità di Goering, la cocciutaggine di Hitler, l’insolenza di Manstein e la remissività di Paulus. Presto i tedeschi non avranno più il tempo di seppellire i propri caduti sul campo. A migliaia verranno consumati dal gelo e dalla cancrena o sbocconcellati dai pidocchi e dai corvi.

A Natale, mentre la feroce propaganda di Goebbels è impegnata a millantare vittoria all’oscuro di Radio Londra, i russi, con l’aiuto dei rifugiati comunisti tedeschi che avranno poi fortuna nella futura DDR, dedicheranno ai racchiusi nella sacca il loro canto delle feste. Alle 03:30 del 25 dicembre, un silenzio orrendo a 38 gradi sottozero verrà turbato da un inquietante messaggio diffuso in radiofonia. I marconisti tedeschi nell’intento di allacciarsi alle frequenze sovietiche saranno i primi a rabbrividire. Quello che sembra un bastoncino di legno che batte su una superficie fredda e vuota scandirà sette rintocchi. A questi ultimi, una voce chiarisce il preludio sonoro: “Alle sieben Sekunden stirbt ein deutscher Soldat. Stalingrad Massengrab… - Ogni sette secondi muore un soldato tedesco. Stalingrad fossa comune…”. E così all’infinito.

La battaglia di Stalingrad terminerà ufficialmente il 2 febbraio del 1943. Paulus si è arreso alle 07:45 del 31 gennaio ultimo scorso dopo 162 giorni di assedio e circa 250.000 cadaveri sul selciato. L’Armata Rossa conterà oltre 485.000 morti e poco più di 652.000 feriti. Da questo momento se la Germania non può più vincere, l’Unione Sovietica non può più perdere.

E così sarà.

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