Alfabeto dice Gerda.

In limine alla Marca sporca da qualcosa come vent'anni, i Gerda sono sacrileghi co-patroni (gli altri sono i Lleroy, già vi dissi qualcosa) di un posto che credo solcato di crepe affollate di arti imploranti aria, ma l'aria è bassa e mefitica: la inspirano pescatori da palude: catturano senza esca pesci dagli occhi già bianchi che chiamano morte, le branchie occluse dal fango producono fischi in superficie. Poi cimeli abbandonati dei ricacciati della Linea Gotica, altri cristiani annegati sopraffatti, anguille-flagello, feti ittici, nel senso di ittiosi.

Pesaro è una donna intelligente, ha detto un gaggio. Jesi è una donna dal labbro vagamente leporino che in mezzo alle meridionali a Bologna in cerca di compagno, cerca un carnefice da gioco di ruolo.

I Lleroy lo dichiarano, di suonare mudcore. I Gerda, veterani, sono passati da un hc lento che direi tutto sommato canonico, per quanto segnato da suggestioni malefiche, all'esplorazione sistematica della sgradevolezza ad ogni livello. L'urlo si è fatto più cupo, di gola e catarrile (la voce si scarica dal vivo in un quarto d'ora circa); quindi anche più vero. Le strutture dilatate, come per impegno a non appigliarsi alla memoria. Dell'ascolto di Black Queer non resterà una frase, un riff, uno stacco, ma una sensazione di sconforto. Checca nera, canzone che si chiama Terzo Regno. Bassista che si muove come una tarantola, le cosce a centottanta gradi. Muscolacci, riverberi secchi sulla voce. Mare è un surf pervertito. Hafenklang, la più rappresentativa, nei suoi sette minuti e oltre, sembra inizialmente condurre a uno screamo, ma poi diventa un ibrido black atmosferico in progressione portata verso niente, solo altre progressioni che non risolvono mai nella tonalità che chiameresti. Oppure Notte, l'intrigo più fitto nel dedalo: diventa difficile individuare non solo le tonalità, ma anche l'andamento; quasi una jam in cui tutti i convitati si impegnino a suonare la più macilenta, sgraziata, dissonante frase possibile. Solo l'urlo, irriconducibile a parole, a dirigere.
Poi la perversione di volerne ancora.

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