Forma e non sempre sostanza per il debutto musicale del producer francese Mike Lévy, che utilizza un moniker quasi impronunciabile e dalla curiosa venatura germanica per proporci un disco che forse apre un possibile futuro nelle musica elettronica, non necessariamente gradito. Aleph è talvolta misterioso, altre austero e distaccato, altre ancora sguaiato e senza alcun timore di scendere in pista insieme a noi per qualche frenetica danza, ma non è mai un tuo amico e complice. A due anni dalla sua uscita, il disco è utilizzatisismo negli spot pubblicitari, e anche pellicole, tanto che il buon Mike si è poi orientato proprio al mercato delle soundtrack, ma questa è un'altra storia. Il successo non è casuale. Lo stile riesce a essere originale ma privandoti di un vero senso di sorpresa, potrei definirlo una sorta di fashion techno che guarda al passato, ma senza invidia, prende quello che gli serve, si adegua al presente e ne crea uno suo. La copertina è veramente perfetta, rappresentando un bulk cd con il simbolo dell'alfabeto ebraico contornato da filamenti in silicio: un po' avveniristico, un po' reliquia misteriosa. E la sensazione è che ascoltandolo manchi qualche tassello al quadro, un quadro che probabilmente viene completato con qualche installazione o immagini proiettate dal nostro cervello. Serve quindi un riferimento visivo per arrivare all'essenza di Aleph, un'esigenza molto curiosa per un disco di elettronica che non è assolutamente una colonna sonora, né dotato di particolare senso cinematografico. Ecco perché questo tipo di musica sembra sposarsi perfettamente con una rappresentazione visiva, meglio ancora simbolica, ma è musica che deve andare a pari passo con le immagini.
Out of Line scatena un oscuro rito tribale scandito da una voce filtrata glamour, forse il maggiore difetto del disco, non sembra un'aggiunta felice e lo stile vocale lascia uno sgradevole retrogusto becero e superficiale. Ma le note colpiscono, inclusa l'apparente semplicità delle librerie subdole che potrebbero suggerire una produzione approssimativa, un'idea che non sarà mai completamente chiarita nel corso dell'album. Pursuit è sostanzialmente il singolo del disco ed è anche strategicamente collocato, un brano palesemente dance intriso di sample vocali bestiali e una bassline quasi rave, poco dopo entra in pista uno stomper inequivocabilmente legato al genere della musica electro, ritmi non velocissimi ma kick e snare profondamente definiti e incisivi. Impossibile non battere il piedino in terra seguendo il ritmo, ripensando ad altri mille dischi e gruppi che abbiamo già ascoltato prima, rimanendo in territorio francese i primi Justice, non certo un male. Sulla stessa linea feroce si muovono le cattivissime Trans, che getta uno sguardo verso Trent Reznor restando ben salda alla sua essenza techno, e l'ostile Hate or Glory, con il suo incedere pesante marziale. Ancora più sguaiata e techno si rivela Duel, voci distorte, diva in fase di orgasmi multipli e sirene rave sfaccettate. Un brano techno ossessivo che guarda indietro, molto indietro, punta ai maestri della scuola di Detroit, ma con sue precise convinzioni non necessariamente compatibili. Questi episodi frenetici raccontano però solo una parte di Aleph, ne esiste un'altra più lontana dalla sala da ballo, che ci porta in ambiti più visionari e artistici, Wall of Memories sembra uscita da uno strambo film horror, è barocca e oscura, riuscendo a costruire in meno di quattro minuti un mondo sotterraneo tutto suo, Nameless è invece tutto l'opposto, dolce e accogliente, vagamente malinconica, si abbandona a sonorità cristalline e uno stile di cui andrebbe fiero Jean Michael Jarre. Hellifornia attinge addirittura dal genere trap (!) per cercare nuovi confini, mentre Destinations è forse l'episodio più clamoroso, con una bassline veramente fenomenale e ricca di suggestioni, purtroppo la solita voce glamour ritorna a rovinare il quadro con linee che nessuno aveva richiesto, ma quell'arrangiamento non si dimentica e infatti il brano è stato sparato a razzo nello spot di Armani Code (ma senza voce). Sconcertante anche la title track, un lento requiem elettronico sostenuto da un campione in loop di chitarra acustica, vocoder da due soldi e cori sintetici appena accennati. Se riuscite a riconoscere le librerie stock di FL Studio non siete i soli, in un mercato dove tutti cercano ossessivamente nuovi confini del sound design c'è anche chi semplicemente se ne frega e pensa solo al risultato. Il pezzo ha qualcosa da dire e si arriva fino alla fine con un senso tra perplessità e rivelazione.
Aleph non è un disco completamente riuscito, ma di sicuro lo si ascolta volentieri e ticattura fino alla fine, nonostante duri quasi un'oretta. Ci sono delle incertezze e qualche soluzione discutibile (le parti vocali), ma le cose che fa veramente bene sono indiscutibili: è oscuro, è feticista e disgustosamente sexy, ha un suo stile che lo caratterizza e riesce a esercitare un malsano fascino, ti racconta una storia che vuoi conoscere e visualizzare per immagini. Sembra come quel tuo amico un po' antipatico con la puzza al naso che non dà mai soddisfazione, ma riesce a coinvolgerti con il suo carisma. Forse te ne pentirai, non gli vorrai mai veramente bene, forse non riuscirai a rispettarlo davvero fino in fondo, ma è difficile dimenticarlo.
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