Dedicata a Nicola di Bari, a Il_Paolo e a tutti li migranti.

"Where was music before music halls? Where was the voice before it learned how to speak?"
(Commento di Andrè Glucksmann sulla backcover di Diasporas / Tazartès)

    Tantissimi tesori sono noti a tutti ed esposti al pubblico all'interno dei musei, ma sicuramente ve ne sono anche altri, come inabissati nell'oceano, di cui nei tempi si è persa memoria e che forse non potremo mai più ammirare. Uno di questi tesori si chiama Enzo Del Re e vive proprio nel piccolo paese costiero in cui mi sono trasferito assieme alla mia ragazza da circa tre anni. Dal momento che le sue incisioni sono pressochè introvabili, spesso, quando sono andato al mercato del pesce per comprare due scorfani e qualche scampo per la zuppa, ho pensato di avvicinare questo barbuto e mitologico anziano sempre in lite con qualche pescatore, ma la mia grande timidezza e soprattutto il suo carattere -da quel poco che pavidamente ho potuto osservare a debita distanza- incredibilmente scontroso me l'hanno sempre impedito. E' perciò con una specie di risentito rammarico che ho deciso di parlare brevemente di lui e del suo caratteraccio in questa pagina dedicata invece al più lontano, ma certo più avvicinabile, Ghédalia Tazartès. 

    Certo, lo si deve dire, anche riuscire ad accostarsi al transalpino di padre turco non è all'inizio impresa facile. Dotato di una voce capace di coprire agevolmente quattro ottave, e che definire duttile sarebbe a dir poco riduttivo, Tazartès dà l'impressione di essere uno zelig in vagabondaggio per il mondo, tanto che, ad un primo ascolto, si potrebbe quasi avere la sensazione di avere tra le mani una delle più folli raccolte di world music, i cui cantanti sono, di volta in volta, bambini, ubriaconi, donne, anziani ed angeli di tutti i luoghi della terra. Il viaggio è, d'altronde, tema fondamentale di tutti i suoi lavori e c'è da credere che dopo "Jeannie" (una scrittura musicale per l'omonima pièce teatrale tratta da un romanzo di Nicolas Genka e patrocinata dal Ministero della Cultura Francese) tornerà ossessivamente ad esserlo.

    Il disco che vi propongo, pur raccogliendo quello che fu nel 1975 il suo esordio ("Diasporas") e il suo quarto lavoro del 1981 ("Tazartès"), appare incredibilmente organico da un punto di vista formale. Come avrete capito dalla descrizione delle straordinarie capacità di questo artista, ci troviamo soprattutto nell'oscuro e stranamente folto territorio della sperimentazione vocale che, nel caso di Tazartès, non è mai fine a se stessa. Sono lì a dimostrarlo già i primi laceranti nove minuti nei quali su un loop di violini -in cui sporadicamente si inseriscono delle percussioni che hanno più funzione di coloritura che ritmica- ascoltiamo Tazartès cantare prima a voce spiegata e poi strozzarsi oltre limiti umani per raccontarci la disastrosa parabola di "un amour si grand qu'il nie son objet". Come l'ebreo errante ricorre a mille travestimenti, così Tazartès è capace di adoperare tutti i timbri per affrontare i temi dell'assenza, dello sradicamento e della morte: in "La vie et la mort légendaries du spermatozoide Humuck Lardy" il francese diventa un vecchio attore giapponese del teatro Nô alle prese con un lamento funebre e, imprevidibilmente, in "Quasimodo Tango", l'unica "canzone" del disco (scritta in collaborazione con Michel Chion), uno struggente chansonnier accompagnato da pianoforte, armonica e xilofono. Con il nono brano comprendiamo davvero il senso di ciò che scrive Glucksmann ("where could the child of the century be found before he is forced to song usins slogans, passwords or pretentious ideologies?"): imparare il linguaggio durante la crescita significa, per l'appunto, "mourir un peu". Ecco perchè quelle splendide voci infantili cedono gradualmente il passo ad un'ordinata orchestrazione sinfonica.

    Gli otto brani che compongono "Tazartès", pur esibendo forse una sofisticatezza ancora maggiore nella ricerca dei suoni, non si discostano molto dai precedenti. Preponderante è qui la presenza della grande musica del continente africano (compresa quella di Fela Kuti, se pensiamo al funky nigeriano con cui si chiude "Merci Stèphane") e manifesta, da parte di Ghédalia Tazartès, è la volontà di avvicinarsi maggiormente alla forma canzone (segno del nuovo corso che lo porterà a realizzare in seguito lavori come "Voyage a l'hombre"). Negli anni questo grande autore realizzerà opere sicuramente più accessibili (e sempre comunque di altissimo valore), tuttavia "Diasporas / Tazartes" resta, a mio avviso, quella più memorabile: il lavoro di un musicista europeo incredibilmente colto capace di farci riconciliare con una dimensione naif e quasi prenatale dell'uomo più di quanto potrebbe oggi un aborigeno che almeno una volta nella vita ha ascoltato i Ramones.  

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