Recensione Garagisti Zozzoni (così Geb è contento). 

Alla fine di tutto questo io mi chiedo come faccia la gente ad ascoltare gli Oasis. Cazzo, lo so che mi faccio domande retoriche. Ma voglio provare a capire perché. Alla fine è chiaro: suono pulito, vita presunto sporca, melodie ingegnerizzate e celodurismo a manetta. Come se gli Stone Roses fossero quelli a cui va reso un ipocrita omaggio giusto per far vedere che gli si riconosce qualcosa. Poi mi chiedo anche perché è stato stabilito che una pietra del cazzo come un diamante debba avere un valore che quando lei lo perde pensi subito a quella migliaiata di euro che potevi mandare in polvere allo stesso prezzo e che quando sarebbe finita tutta non avresti - logicamente - battuto ciglio. Minchia mi sono perso. Cioè, perché una pietra vale tot e fa sognare e un disco come questo non vale niente? E' altrettanto prezioso, devi andartelo a cercare proprio come le pepite, non puoi far altro che regalarlo alla tua attività corporea sensoriale per mandarla in visibilio. Un diamente riflette luce. Questo disco la irradia.

E' praticamente come prendere certi Beatles, chiuderli in un garage e riverberarli come si deve. Si fa presto a dire etereismo, onirismo, sogni. Ci sono alcune delicatessen che copliscono giusto all'intersezione esatta di atri e ventricoli perché mettono insieme quelle malinconie che, ad esempio, spesso caratterizzano i miei settembre, con quel sole fatuo che batte sulla spuma marina prosciugata dal bagnasciuga, con quelle serate che sai che presto saranno fredde in ogni senso, con quella decadenza maliarda di un centro storico immobile ai primi del novecento. E così entra in ballo un'estate moribonda, tiepida, la paura di perderla, il magone della fine di un altro ciclo positivo. E qui il surf si va ad incrociare con lo shoegaze dando vita ad acrobazie che piantano gli artigli nel tessuto muscolare cardiaco senza pietà per quella malinconia che la stessa formula musicale genera. Il pallore di questa  musica, la trasfigurazione di allegria in gabbia di malinconia vivono come impertinenti figure retoriche all'interno di un testo ambiguo e contraddittorio. Come se qualcuno scrivesse "sono felice perché sono triste". Io me lo spiego così questo disco, che è capace di prendere letteralmente punte di cucchiaio di brit pop, anni '60 e rock alternativo e spolverarle in quest'amalgama riuscita per l'indefinitezza e il senso di smarrimento procurato da un suono costruito come una palla di lava incandescente dentro e fredda fuori.

Per le cose che ho ascoltato, sicuramente uno dei migliori dischi dell'anno appena trascorso, uno di quelli che farò in modo di avere al più presto perché lasciarmelo sfuggire sarebbe come perdere l'occasione che ho avuto, di conoscere quell'incantevole e filiforme pianista russa che ha suonato solo per me per quaranta minuti e con la quale sono stato incapace di mettere quattro parole in fila, tanto ero vaporizzato. Ora me la ricordo sempre bella al di sopra di ogni bellezza, senza contorni precisi, come la copertina di Loveless.

E intanto i riverberi continuano ovunque io vada.

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