Sinceramente, non saprei proprio dire se nella storia dell'opera esiste un caso analogo a quello di Giacomo Meyerbeer in generale e Robert le Diable in particolare. Un lavoro di importanza colossale, ripeto, colossale, accolto trionfalmente e via via sempre più marginalizzato, affossato non solo dal naturale avvicendarsi delle mode ma anche da una squallida opera denigratoria da parte di certa critica, aizzata in primis dai capricci sciocchi di tale Richard Wagner, il quale, a livello artistico e non solo, avrebbe solamente dovuto baciare la terra dove passava Meyerbeer. Non è questo però il luogo per apoprofondire nel dettaglio il pur interessante affaire Meyerbeer-Wagner, partiamo invece dal principio: chi era, esattamente, Giacomo Meyerbeer?
Un personaggio piuttosto anomalo, ebreo tedesco, formatosi come operista in Italia e arrivato all'apice del successo in Francia; lo si potrebbe definire un apolide, o meglio ancora un europeo ante-litteram. con il Robert le Diable (1831 l'anno della prima) ha pienamente definito e codificato la Grand Opera, inaugurato il sodalizio tra opera e balletto e dato un'enorme spinta propulsiva all'opera francese in generale, a cui i suoi vari successori pagheranno abbondantemente tributo; una esempio che ho notato subito è che nella Carmen di Bizet il personaggio di Micaela è ripreso pari pari da Alice. Ma sarebbe sbagliato ridurre Robert le Diable ad una vicenda puramente storicistica, questo è uno spettacolo, un continuo susseguirsi di scene colorite e appassionanti, un'opera seria ma che non si prende mai troppo sul serio, e che si presta ad interpretazioni tutt'altro che banali.
Non è sicuramente un medioevo austero ed iconografico quello in cui si svolge l'azione, lo si capisce già da quella pittoresca prima scena, dominata dai cori dei prodi cavalieri che inneggiano al vino, alle donne e al gioco d'azzardo e, a proposito di cori, Robert le Diable ne ha a profusione; cori di cavalieri, di cortigiani, di dame, di monaci, sempre rigogliosi e trascinanti. Soprattutto per quanto riguarda questo aspetto il giovane Giuseppe Verdi avrà sicuramente preso tanti, tanti appunti. I tre personaggi cardine sono Alice, Bertram e, ovviamente, Robert: rispettivamente una classica fanciulla "angelicata" ma tutt'altro che debole, il diavolo tentatore e un cavaliere che non è nè senza macchia nè senza paura, anzi, è una banderuola presa tra due fuochi; sempre a proposito di Carmen, c'è una somiglianza piuttosto evidente anche tra Robert e Don Josè (e ovviamente tra Robert e Tannhauser, il protagonista dell'omonima opera wagneriana). La dinamica di questo triangolo si risolve nell'ultimo atto, con Alice e Bertram che si contendono l'anima di Robert in un lungo e spettacolare trio, che quasi và a superare la forma chiusa. Da par suo, il protagonista rimane indeciso fino all'ultimo, riuscendo così ad ottenere una redenzione attraverso l'amore presa molto, molto per i capelli, oppure proprio una redenzione attraverso l'indecisione, che se non spinge a fare la cosa giusta quantomeno mette un freno agli impulsi peggiori della natura umana. Mi piace molto questa interpretazione, realistica e senza eroismi di maniera.
C'è poi un quarto personaggio principale, Isabelle, la donna amata da Robert: dal punto di vista drammaturgico è un ruolo un po' meno cruciale degli altri tre, ma le arie più belle sono sue, "Robert, toi que je t'aime", accorata e suadente romanza e soprattutto quella fontana di champagne che è la sua cavatina all'inizio del secondo atto, "En vain j'espere" classica grand aria con tanto di introduzione, cori e cabaletta finale, "Idole de ma vie", da un leggiadra malinconia a un incontenibile, gioioso, spumeggiante crescendo. Questi due meravigliosi showpieces sono entrambi arricchiti da elementi arabeschi, che ricordano che la vicenda è ambientata a Palermo nell'alto medioevo e Isabelle è presentata come principessa di Sicilia. Una parte da soprano di coloratura, che richiama gli stilemi vocali di quei compositori belcantisti (Rossini soprattutto) nella cui ombra Meyerbeer ha affinato le sue doti in un lungo periodo di gavetta. Complessivamente il ruolo più intrigante e più impegnativo dal punto di vista vocale e recitativo è proprio quello di Bertram, che richiede un basso-baritono estremamente dinamico e in grado di sostenere un terzo atto in cui, tra monologhi e duetti, monopolizza quasi interamente la scena. E questo oscuro, grandguignolesco terzo atto culmina con una novità assoluta, il balletto delle suore fantasma, praticamente una "cartolina" da Venusberg in versione spettrale e blasfema; roba controversa, per l'epoca, e che rimane un numero musicale e scenografico di altissimo livello.
Quanta magnificenza che ha rischiato di finire dimenticata per sempre a causa di motivi futili o peggio; pericolo scampato? Tuttosommato direi di sì, grazie anche a sponsor importanti come Joan Sutherland le opere di Giacomo Meyerbeer (soprattutto Les Huguenots e L'Africaine) si sono riprese un proprio spazio in repertorio, ed eventualmente anche la madre di tutte le Grand Operas, Robert le Diable, è tornata nel suo habitat naturale, che ovviamente non può che essere il grande teatro. Royal Opera House di Londra, anno 2012, doppio DVD, buoni interpreti come John Relyea nel ruolo di Bertram e Patrizia Ciofi, probabilmente la più esperta e competente interprete di Meyerbeer vivente, in quello di Isabelle. Intrigante la regia di Laurent Pelly, che idea uno spettacolo vivace e colorato, in linea con le atmosfere dell'opera, utilizzando intelligentemente stilizzazioni e occasionalmente "licenze poetiche" moderniste che non stravolgono per nulla l'ambientazione originaria. Una produzione ben fatta e interessante; ora, se la Scala facesse un qualcosa di analogo, ad esempio, per Guglielmo Ratcliff o Isabeau di Mascagni, o per Siberia di Umberto Giordano sarebbe veramente una gran bella cosa, ma sto divagando.
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