Toscanini e Puccini si misero in una saletta di prova della Scala. Puccini era di una malinconia profonda e di una rassegnazione conscia. Era il tramonto, la fine. Toscanini stava seduto accanto al maestro e gli voltava le pagine. Il più grande direttore d'orchestra d'ogni tempo, lo seguiva con una tenerezza che solo chi ha provato un grande sentimento d'amicizia e ammirazione può donare. Riassettava i fogli e si occupava di qualunque orpello potesse intranciarlo. Era l'abbraccio dell'ultimo incontro. Una settimana dopo, il 4 novembre, Puccini partì per Bruxelles per essere operato e lasciare il mondo dei mortali per entrare di diritto in quello degli immortali.
La sera della prima rappresentazione, arrivato alla battuta precisa in cui Puccini aveva interrotto la partitura, Toscanini fermò l'orchestra, si voltò verso il pubblico e fece il primo e ultimo discorso pubblico della sua vita: "Qui, a questo punto, si è interrotto Giacomo Puccini. La morte questa volta è stata più forte dell'arte."
Questa edizione della Turandot a tutt'oggi, è la migliore che sia mai stata incisa. Zubin Mehta, forse, raggiunge la sua vetta in carriera concertando con un'espressività che ha del "più unico che raro". Viene spazzata via la sclerotica, banalissima tendenza a raffazzonare tutto dietro lo scudo della potenza vocale e dello sfarzo fine a se stesso. Si torna all'assolutismo di Toscanini. Metha asciuga tutto e fa brillare uno scrigno che all'apertura svela un ventaglio di diamanti durissimi che brillano incastonati, in una dinamica nervosa che crea strappi e squarci agli ascoltatori. La London Philharmonic Orchestra è in uno stato di grazia che ha pochi precedenti nella propria storia. La Decca se ne accorge e conosce la determinazione del direttore d'orchestra. Capisce che è l'occasione giusta per profondersi in uno sforzo che scolpirà il proprio nome nell'olimpo delle incisioni. Viene reclutato quello che all'epoca era considerato il più grande cast al mondo: Joan Sutherland, Luciano Pavarotti, Monsterrat Caballé, Nicolai Ghiaurov, Peter Pears, Tom Krause, Pier Francesco Poli, Piero de Palma, Sabin Markov. Tutto lo sforzo verrà ripagato.
Molti avevano storto il naso al reclutamento della Sutherland. Turandot non è un personaggio molto adatto a una virtuosa del canto, ma più a un'interprete emotiva e fragile. La Sutherland spazza via ogni pregiudizio, mettendoci un impegno che ha dello sbalorditivo. La melodia, dalle sue labbra, fluisce e si propaga in una liquida, incantevole grazia. Una dolcezza che piega ogni resistenza pregiudiziale. In alcuni passaggi siamo addirittura al prodigio vocale. Durante il "Principesa-Lo-u-Ling" e il suo "lunghe carovane", l'atmosfera si fa di una compattezza e omogeneità che s'illumina in una miracolosa coloritura che riesce a spaccare l'aria circostante. I "do" sovracuti sono talmente espansivi, larghi e avvolgenti che tramortiscono nel loro formidale controllo. La Callas deteneva lo scettro della migliore Turandot mai esistita. La Sutherland glielo strappa con la forza. Mai Turandot era stata tanto affascinante, languida, misteriosa, ammaliante, femminile e avvolgente.
Pavarotti o' Pavarotti, di minchiate ne hai fatte per auto screditare il tuo gran nome, ma quando c'è da tirar fuori i così detti per non sfigurare, ci sei sempre stato. Questo dimostra che lo stimolo per alcuni artisti è tutto. Il talento a volte non basta. Il suo Calaf è di una pienezza e una potenza che abbate una Piramide a un chilometro di distanza. Voce chiarissima, argentea e squillante, ricchissima di vibrazione e d'intensità che fa l'amore con l'orchestra in un idillio sospeso. Il fraseggio raggiunge una sensualita che Lucianone poche volte ha raggiunto in carriera. Naturalmente, quando arriva il momento degli acuti è il caso di levarsi di mezzo per non essere travolti da una forza che ha la stessa consistenza della natura quando si ribella. Il "Nessun dorma", che Lucianone ci ha fatto quasi odiare per l'uso e abuso che ne ha fatto nel tempo, qui, all'origine, è splendido. Ci riconcilia definitivamente con la tanto "famigerata". Un canto di una bellezza adamantina e emozionata, commuovente e tonante.
Tutti gli altri, le così dette "parti di fianco", sono di fianco manco pe' niente. La Decca pone fine alla scelta di cantanti di facciata che riempono i vuoti tra una star e l'altra, accontentando il direttore d'orchestra. Una banda di belve pronte a facogitare l'ascoltatore. Krause, de Palma e Poli, sono e fanno gli artisti. Dimostrano che non sono nel progetto solo per ritirare un consistente caché. Ghiaurov rende gigantesco il suo "Timur", possente, quasi barbarico, una solennità che riesce a sciogliersi nella trenodia sulla morte di Liù, sfociando in una struggente melodia che dilania nelle viscere. Monsterrat Caballé, grazie di di esistere. Della sua "Liù", basterebbe il suono della voce per renderla immensa. Tra salti d'ottava e "pianissimo" da strapprsi i capelli, vola avvolta da un orchestra che deforma i contorni fino a rendere le sue entrate, miracolese. Zubin Metha controlla e sovrasta tutti con un nerbo tirato e superbo.
Infine parliamo dell'incisione: mamma mia! Qui siamo all'ingegneria acustica Olimpica. Una peculiarità di suono che inchioda al muro. Una pulizia e una ricercatezza che lampeggia nel vuoto cosmico e ascende fino alle sfere astrali per poi precipitare sulla terra con una forza che tramortisce.
Puccini sarebbe stato orgoglioso e felicissimo di sentirla. Ne sono sicuro.
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