Dieci libri a proprio nome, 4 con pseudonimo, 500 canzoni, 7 opere teatrali, poesie, la traduzione di alcuni libri di Chandler, trombettista jazz di ottima fattura tanto da essere amico apprezzato di Duke Ellington e Miles Davis (oltre che dirigente del reparto discografico jazzistico della Philips). Ed è morto a soli 39 anni. Sennò chissà che avrebbe mai combinato. Boris Vian è stato, senza ombra di dubbio, una delle menti più geniali del ventesimo secolo. È ovvio che un personaggio del genere faccia perdere la testa. Quei personaggi che se ci si butta portano via per studiarli più anni di quanti ne abbia vissuto. Le sue canzoni, ad esempio. Solo in Italia sono state riprese e tradotte da Fausto Amodei, Ivano Fossati, Luigi Tenco, Ornella Vanoni, Luci della Centrale Elettrica.
Ma c’è un autore italiano che per le canzoni di Vian ha fatto più di tutti questi messi assieme, anche se troppo speso viene dimenticato. Nel suo piccolo il milanese Giangilberto Monti un po’ Vian lo è. Ha pubblicato 16 dischi, ha recitato con Dario Fo, ha scritto testi comici per Aldo, Giovanni & Giacomo, Marco Della Noce, i Fichi d’India; ha scritto il Dizionario dei comici e del cabaret per Garzanti.
Tra le tante cose dal 1994 si è buttato nello studio delle opere di Boris Vian, non solo delle sue canzoni. Una passione che ultimamente è sfociata prima in un docu-romanzo e poi in uno spettacolo teatrale che racconta la storia del genio francese. Anche lui, come Vian, può essere definito “uomo numeroso”, modo di dire transalpino per definire chi nella vita ha fatto di tutto. Nel 1997 quando un amico mi consigliò il CD oggetto di questa recensione non sapevo nulla di queste due storie. O meglio conoscevo marginalmente Monti, fiero possessore di una copia in vinile del suo disco di esordio L’ordine è pubblico?, datato 1978. Otto pezzi caustici, ironici, anche controversi in alcuni passaggi, di cui sarebbe bello parlare prossimante.
Ma torniamo a Boris Vian – Le canzoni: diciotto brani scelti nella produzione dell’autore francese a rappresentare bene la sua poetica trasversale. Uno solo di questi lo avevo già incrociato. Ovviamente parlo di "Le Déserteur", che cinque anni prima avevo sentito nella versione toccante di Ivano Fossati, che sul disco Lindbergh - Lettere da sopra la pioggia aveva ripreso la traduzione storica fatta da Giorgio Calabrese nel 1971 già incisa dalla Vanoni e da altri. Una canzone potente, più volte censurata, scritta da Vian nel 1954 e pubblicata il 27 maggio di quell’anno in occasione della disfatta francese nella battaglia di Dien Bien Pho, la fine della Guerra di Indocina. Monti ha l’ardire di riscriverla. Facendola diventare forse ancora più cruda.
Come riscrive in una versione più scorrevole "La java delle bombe atomiche", che in Italia era conosciuta per la versione scritta da Fausto Amodei. In tutto sul disco ci sono, come detto, 18 pezzi che sono un buon compendio per iniziare a conoscere la poetica musicale di Vian. Testi che sembrano alle volte scritti da un Gaber schizzato d’oltralpe. Le amare considerazioni del mercante di morte di "Vendiamo armi", che le ha provate tutte prima di piegarsi al commercio bellico; l’ironia quasi Jannacciana di "Lino ma sto corpo dov’è?", che racconta una storia di malavita ordinaria che pare presa di peso dalla Milano dei banditi, l’antimilitarismo di "Le scarpe che van di più"; il duetto con Evelina Primo nella spingante "Picchiami Johnny", che potrebbe essere un pezzo di Buscaglione e che Vian cantava con Magali Noël. Il tutto sostenuto da una band di prim’ordine composta da Diego Baiardi al pianoforte, Marco Mistrangelo al contrabbasso, Vanni Stefanini alla batteria. Registrazioni fresche fatte dal vivo e prodotte da Roberto Colombo. Il cd faceva parte della collana de Il Manifesto. Lo si trova su Spotify.
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