Tratto da un racconto di Sciascia, Amelio cura regia e sceneggiatura di "Porte Aperte" (1990) film a tema giudiziario ambientato a Palermo nel 1937. Scalia, un impiegato non proprio modello, appena licenziato e frustrato (interpretato mirabilmente da Ennio Fantastichini), nell'arco di una giornata uccide il capoufficio, un collega e la moglie. Viene presto arrestato e per lui si profila la pena di morte (da lui stesso invocata), ma un giudice (Gian Maria Volontè, bravo ed intenso come sempre) evidentemente contrario ideologicamente a questa tipologia di condanna, si oppone e fa di tutto per mutare una sentenza che sembrava già scontata, andando ad indagare tra le pieghe di un caso che di minuto in minuto sembra sempre meno banale.

La pellicola, che all'epoca ebbe un buon successo di critica, tanto da essere candidata all'Oscar, rappresenta, più che un'avventura giudiziaria, un affresco della Sicilia degli anni Trenta ed Amelio è bravo a non scivolare in una facile retorica antifascista, rimanendo, invece, parzialmente distaccato e narrando i fatti dal punto di vista strettamente umano, puntando il fuoco dell'obbiettivo su un solitario e schivo Volontè, funzionario scrupoloso e leale che tenta di raggiungere i propri scopi muovendosi nella maniera formalmente più corretta possibile. Dall'altra parte della sbarra Fantastichini offre un'interpretazione altrettanto memorabile, tratteggiando un personaggio diametralmente opposto al giudice, cioè iracondo, violento, impulsivo, che non ricerca consenso, al contrario fa di tutto per aggravare la propria posizione agli occhi di giuria e cittadinanza. L'altra faccia della solitudine. Non ci sono colpi di scena, non c'è suspence incalzante, e, alla fine, nonostante la sentenza, si ha la sensazione che la trama non sia stata del tutto svelata. Lo scopo dell'opera è un altro: i fatti sono chiari, a parte qualche dettaglio, e non importa se qualcosa sfugge in una Sicilia che ha sempre qualcosa da nascondere (anche se si può trattare di cose veniali), ma ciò che conta veramente è l'attenzione alle persone più che ai codici ed agli svolgimenti giudiziari, che devono quasi meccanicamente procedere. Ecco perchè gli interpreti sono di vitale importanza in "Porte Aperte", e non solo i due protagonisti, ma è doveroso citare anche R. Giovampietro e R. Carpentieri. L'audio in presa diretta, se da un lato risulta meno pulito, dall'altro esalta la dimensione popolare ed il taglio quasi neorealistico (con le dovute distanze), cifra stilistica di Amelio. La fotografia alterna soleggiati esterni di paesaggi naturali, caldi e quieti, con bui e lugubri uffici, appartamenti spogli o oltremodo opulenti, scorci di Palermo popolare e decadente. Scena chiave del film, che reputo tra le più illuminanti, che dà il titolo all'opera, è il pranzo a tre tra il Giudice (Volontè) il presidente ed un altro funzionario, in cui si mettono in tavola le diverse idee politiche, giuridiche e sociali, che rappresentano, in definitiva, le forze in campo che si danno battaglia durante la vicenda.

"Porte Aperte" è un film a mio avviso ingiustamente dimenticato, forse per colpa dell'Oscar mancato, forse perchè non rispecchia propriamente i canoni del cinema moderno che deve avere un certo ritmo e deve dare quasi sempre delle risposte, di certo lo trovo più legato ad una tradizione cinematografica (del tutto italiana) più vicina ai film di Rosi o Petri. Da vedere. 

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