Premesso che:
- I Giardini di Mirò mi stanno sul cazzo
- Non hanno inventato un cazzo
- Sono dei ruffiani del cazzo
Premesso tutto questo, "Il Fuoco", mi tocca ammetterlo, è un album bellissimo.
Partiamo dalle origini del progetto: è l'anno 2006, e il Museo Nazionale del Cinema di Torino commissiona ai Giardini di musicare il neo-restaurato "Il Fuoco", pellicola datata 1915, capolavoro del cinema muto italiano diretto da Giovanni Pastrone e sceneggiato con la collaborazione di Gabriele D'Annunzio.
Ebbi modo di assistere lo scorso anno alla performance "Giardini di Mirò VS Il Fuoco", dove la band si cimentava nell'improvvisata costruzione di una degna colonna sonora che ripercorresse gli svolgimenti della trama del film, proiettato alle spalle dei componenti, defilati dalla scena a maneggiare i loro strumenti quasi con imbarazzo e referenza verso un capolavoro filmico di tal fattispecie: uno spettacolo suggestivo, intenso, dove ebbi modo di sorprendermi nell'apprezzare le qualità esecutive e la sensibilità espressiva della band emiliana, che, in verità, non mi aveva mai entusiasmato in precedenza.
Oggi, nell'anno 2009, finalmente vede la luce l'album scaturito da questa esperienza: se l'uscita ufficiale è prevista per settembre, l'opera è già disponibile ordinandola su internet o acquistandola negli stand allestiti alle esibizioni dal vivo. Volente o nolente, ho assistito nella mia vita a ben cinque concerti dei Giardini, ed in occasione dell'ultima calata toscana della band, non mi son fatto sfuggire questo prezioso tomo che, volente o nolente, inseguivo più o meno da un anno.
Perché "Il Fuoco" è un album bellissimo: perché anzitutto i Giardini tornano alla loro dimensione più congeniale, quella di un ispirato post-rock in veste strumentale. Già festeggiai la dipartita del Raina, mai digerito, sostituito poi al microfono dai componenti della band, altra scelta che non ho trovato felicissima: oggi i Giardini fanno invece un passo indietro, accantonano ogni velleità di esportazione del proprio prodotto a platee più ampie, paradossalmente pubblicando il loro album più umile ed al contempo ambizioso, sicuramente il più ragionato, a mio parere il loro migliore di sempre.
Un passo indietro, perché l'idea del plateale crescendo post-rock (in cui, c'è da dire, i Nostri sono dei maestri) viene con maturità ridimensionata ai ranghi di una dimensione maggiormente intimistica: una musica, quella contenuta ne "Il Fuoco", che gioca sapientemente e con delicatezza sulle sfumature, sui chiaro-scuri, sul fluire emozionale delle note, mai troppe, sempre ben dosate e sempre collocate nella giusta posizione. Un equilibrio che ha quasi del miracoloso.
Dodici tasselli si raccolgono e confondono in un unico e coerente percorso, tanto che definire "Il Fuoco" una lunga e coinvolgente suite di 43 minuti non è del tutto fuori luogo.
A fare un passo indietro è soprattutto Francesco Donatello, che, svestendo i panni di potente percussionista dal tiro micidiale, si mette al servizio del progetto, accompagnando dolcemente il fluire delle note con un drumming scarno e ripetitivo (è spesso il rifrangersi dei piatti a dare la direzione ai brani), ma sempre funzionale all'insieme delle cose. A dominare sono invece i commoventi arpeggi di chitarra di Corrado Nuccini, ed i provvidenziali inserti di violino e di clarinetto del polistrumentista Emanuele Reverberi. Il resto lo fanno i fragili rintocchi di un pianoforte, le soffici tastiere chiamate a dare maggiore corposità al sound, gli eterei gorgheggi del Jukka (un'impostazione vocale più "strumentale" che altro), i ricami di un'elettronica mai invadente reclutata per smussare gli spigoli di un post-rock sognante ed impalpabile.
La suite ripercorre gli umori delle tre fasi del film ("La Favilla", "La Vampa" e "La Cenere"), un'amara storia d'amore fra un pittore ed una poetessa, una vicenda dove intervengono inevitabilmente i fattori fatali della passione e della follia. I Giardini, invero, non allestiscono una semplice colonna sonora, ma un'opera a sé stante ed indipendente dalla pellicola, tanto che la visione della stessa si rivela non indispensabile alla fruizione dell'album (e lo dimostra il fatto che i 55 minuti originari del film vengono condensati in una forma rielaborata, più breve, compatta, frutto, immagino, di un'operazione di attenta levigatura dei suoni, delle idee e degli arrangiamenti).
Come si diceva in apertura, i Giardini non compiono alcun miracolo della musica, non inventano alcunché di nuovo, tanto che il fantasma degli imprescindibili Mogwai continua ad aleggiare dalla prima all'ultima nota dell'opera: sarebbe un torto tuttavia non riconoscere ai Giardini una specificità all'interno del genere, una personalità oramai compiutamente definita, una reale ispirazione nell'approccio alla propria materia sonica, una musica che può finalmente fare a meno dei cliché presto invecchiati e già decrepiti del post-rock.
Il tema portante dell'opera, ripreso via via nel corso della stessa, è per esempio quanto di più ispirato i sei musicisti abbiano mai concepito, un tema che sa emozionare pur nella sua essenziale semplicità. Il resto, si diceva, viene trasportato dai sempre ispirati arpeggi di Nuccini, sospesi, persi in un mondo poetico fatto di malinconia, romanticismo, estasi amorosa, delusione, rabbia, sconforto e pazzia.
In un paio di frangenti, tuttavia, la band recupera la propria compattezza, architettando crescendo accattivanti, mai sopra le righe, sempre (come tutto del resto) funzionale agli umori dell'insieme.
I Giardini, si diceva, sono anche dei ruffiani (degli intelligenti ruffiani), e sanno ben miscelare l'innata orecchiabilità della loro musica con dei passaggi più stilisticamente colti, approdando così a fraseggi minimal (fra sofisticata elettronica e guizzi free) e, in certi frangenti, anche al rumorismo tout-court. Forse proprio negli scricchiolii espressionistici degli strumenti, e nel roboare sconclusionato delle chitarre, intrecciate allo stridere del violino di Reverberi, rinveniamo i momenti più manieristici dell'opera (come se, a tavolino, i Giardini avessero compiuto un'opera di bilanciamento, chiamando il caos a compensare la melensaggine di certi passaggi, rendendo così la loro musica impermeabile innanzi alle prevedibili tentazioni di etichettarla come pop): momenti che, tuttavia, perdoniamo volentieri, data la luce e la bellezza emanate dall'insieme.
Un album finalmente maturo, questo "Il Fuoco", un album necessario all'interno della discografia dei Giardini, un album che li eleva e permette loro di posizionarsi definitivamente nel gotha della musica italiana alternativa dei nostri giorni.
Calorosamente consigliato ai facilmente emozionabili.
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