Lasciatevi avvolgere dal groove.

No, non siamo dalle parti di Curtis Mayfield, l’approccio è agli antipodi e quindi naturalmente complementare: tanto il primo è ancorato all’immaginario blaxplotation nel portare al pubblico (anche bianco) l’anima nera, tanto l’altro si stringe ala propria negritudine verso una musica dura nelle parole quanto nelle note (menzione obbligatoria a tal proposito va a “Pretty” Purdie, eccezionale batterista responsabile di più capolavori di quanti pensiate).

Che dire dunque di questo “Pieces of a man” ? Gil Scott-Heron veniva dal riuscito esperimento di “Small talk at 125th & Lenox”, disco di poetry recitati su base di percussioni (bonghi e poco altro), e decise di portare le sue liriche su temi universali quali l’emancipazione del popolo di colore e le piaghe che lo affliggevano (e lo affliggono), in primis la tossicodipendenza, ma dedicate anche a temi intimisti e privati, su territori carichi di suggestioni soul, jazz, funk, facendo un po’ da rapper, un po’ da Marvin Gaye, un po’ da cantante confidenziale di personalissimi late-night tales.

L’apertura è affidata al suo pezzo più noto, “The revolution will not be televised”, proto-rap su batteria dura e basso potente e profondo, il tutto accompagnato da un clarinetto, mentre le liriche annunciano che “the revolution will put you in the driving seat”, “the revolution will not make you look five pounds thinner”, “the revolution will be live”. Un classicone. Il disco si snoda poi lungo una serie di pezzi validissimi, che seguono sostanzialmente tre filoni: quello di un funk colorato ai confini del soul quale “Lady Day and John Coltrane”, omaggio a due esponenti fondamentali della black music; quello di invettive dure sia per quanto concerne le parole che la musica (vedi “Home is where the hatred is”, amara biografia di una tossicodipendenza sviluppata su di un claustrofobico giro di chitarra); infine, quello della canzone confidenziale (essenziale a tal proposito la title track, cinematica come non mai, col contrabbasso che vola leggero sulle ali di una notte tinta di alcol, di abbracci e baci mancati, rimpianti e desiderati, un pianoforte in sordina e la voce calda e suadente che canta solitaria il suo ultimo pezzo prima di chiudere la serata).

In chiusura, è da menzionare la lunga “The prisoner”, che nella composizione ricorda certi lunghi sogni ad occhi aperti di Bob Dylan (vedasi “Sad eyed lady of the lowlands” o “Hurricane”): con queste composizioni ha in comune il ripetersi incessante di una struttura che, magicamente, non annoia, ma anzi sottolinea il cantare del menestrello, che in questo caso, dal profondo di un pozzo che è più che suggerito dall’atmosfera tetra ma tesa, declama i suoi versi sulla prigionia, sulla paura, su solitudine ed incomunicabilità.

Che dire dunque? Lasciatevi avvolgere dal groove, da queste atmosfere rare per la loro bellezza, fatevi un favore, recuperate questo disco, che se non è un capolavoro ci va talmente vicino da meritare il 5.

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