Ho una mia idea sul perché un artista del calibro di Gil Scott-Heron non incida più da un pezzo e, soprattutto, sia caduto in un "buco nero" dal quale non riesce a tirarsi fuori. Proprio lui che nel corso della sua esemplare carriera di scrittore, poeta, musicista, attivista politico ha cercato di tracciare una strada di orgoglioso riscatto, di consapevole ribellione per i "fratelli" nei confronti di una società, di ieri e di oggi, ipocrita, razzista e troppo ingiusta, proprio lui è rimasto invischiato nelle sue trappole, blandito da quei miraggi dai quali ha cercato di mettere in guardia i suoi coetanei e le più giovani generazioni.
Credo c'entri non poco la cocente delusione per la percepita fine dei suoi ideali. Deve essere difficile accettare che proprio coloro che lo indicano oggi come punto di riferimento, come un antesignano (effettivamente Gil faceva "rap" quando ancora nessuno lo chiamava così...), abbiano alzato bandiera bianca, fagocitati dal dio-dollaro e ammansiti dal conseguente sfrenato consumismo. "La mia generazione ha perso", dovrà aver pensato il nostro; e quelle venute dopo, abbagliate dagli ingannevoli luccichii di Mammona, sono divenute poco a poco funzionali al sistema che ingrossa i ghetti, le prigioni e i conti in banca di pochissime, osannate "Black Stars".
Chi non lo conoscesse, può farsi un'idea della sua poliedrica personalità leggendo il suo secondo e ultimo romanzo del '72, non ne ha scritti più, pubblicato in Italia solo nel 2001 dalla meritoria casa editrice Shake, "La fabbrica dei negri", sorta di fotografia con luci ed ombre del movimento universitario studentesco afro-americano dei seventies; oppure procurarsi il suo "The Best", che contiene anche il suo pezzo più famoso, una sorta di manifesto politico-musicale, "The Revolution Will Not Be Televised", scritto nel '71 a poco più di vent'anni: più che un protorap, un "flusso di coscienza" (...The revolution will not go better with Coke / The revolution will not fight the germs that cause bad breath / The revolution WILL put you in the driver's seat / The revolution will not be televised, WILL not be televised, WILL NOT BE TELEVISED / The revolution will be no re-run brothers / The revolution will be live).
Ma è di un suo album degli anni '80 che vorrei parlarvi, quello del mio primo incontro con lui, "Reflections". Esso è un impareggiabile mix di impegno, popular black music, consapevolezza politica, intelligente easy listining: body & soul, insomma. E se nei suoi lavori precedenti una sorta di jazz-fusion era "l'abito " indossato più spesso dai suoi densi e diretti "streams", nei setti brani di "Reflections" c'è molta più varietà e si declina la musica "black" in tutti i suoi "casi". Dal raggae di "Storm Music", omaggio al re di Kingstom che considerava un maestro di libertà, alla Soul d.o.c. di "Grandma's Hands", in cui pare un Bill Withers arrabbiato. Non manca neanche un strizzatina d'occhio ai ritmi latino-americani con "Gun", né il classico "tappeto" cool-jazz su cui appoggiare i suoi "pensieri mattutini". "Is The Jazz?" è un continuo succedersi di immagini (Bird, Billie, Miles, Prez. . . ) che rispondono in modo inequivocabile, ma anche originale (ci sono anche Stevie Wonder e Bob Marley) al quesito.
A sigillare questa concezione ecumenica del black sound, non poteva mancare la cover di "Inner City Blues", un'interpretazione molto personale, una prima parte più canonica che si innesta sul suo tipico spoken-word. Chiusura in bellezza con i 12 e passa minuti di "b-movie", ironica filippica su quel mediocre attore western divenuto pessimo presidente (noi oggi non siamo messi meglio: c'è un pessimo pianista da crociera al timone della nave...).
Peccato che Gil se la passi male: i suoi occhiali a specchio che indossa fiero sulla copertina dell'album, sarebbero più che mai utili per aiutarci a riflettere (con "reflections" in inglese s'intendono sia i riflessi, i rispecchiamenti che le riflessioni) sull'attuale desolante realtà.
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