Prima di scrivere una recensione, il DeB ti dà alcuni suggerimenti su come scrivere una recensione. Chi mai si sia preso la briga di leggerli, avrà notato il passo «Inoltre non sei un filosofo» - passo di per sé abbastanza ermeneutico. O almeno, io l'ho trovato così. Per ciò, dopo lungo rimandare, mi son deciso a scrivere questa recensione, prendendo in esame un libro che non leggo da parecchio, ovvero «Che cos'è la filosofia?» di Deleuze & Guattari.

Al contrario di molte mie precedenti recensioni, però, non parlerò dell'oggetto della recensione, o meglio ne parlerò indirettamente, cioè tracciando le tappe che hanno portato a quell'idea di Filosofia, e lo farò cominciando proprio da quel libretto che Deleuze titolò «Empirismo e soggettività», dove il filosofo francese analizzava la magnum opus di Hume. Ma prima un passo indietro: le «Ricerche sull'intelletto» di Hume si concludono con le seguenti parole, profetiche per l'atteggiamento scettico sviluppato poi nel «Trattato sulla natura umana»: «Quando scorriamo i libri di una biblioteca, persuasi di questi principi, che cosa dobbiamo distruggere? Se ci viene alle mani qualche volume, per esempio, di teologia o di metafisica scolastica, domandiamoci: contiene qualche ragionamento astratto sulla quantità o sui numeri? No. Contiene qualche ragionamento sperimentale su questioni di fatto e di esistenza? No. E allora gettiamolo nel fuoco, perché non contiene che sofisticherie e inganni»; si tratta, insomma, di riportare le scienze all'unica vera scienza, che è la natura dell'uomo, concezione che gli permetterà di discernere dal sapere due tipi di filosofia, una estensiva e una critica, e solamente quest'ultima è positiva poiché smonta e distrugge le credenze fondate sull'istinto e sull'intelletto, termini ai quali contrapporrà, nel suo empirismo radicale, impressioni e idee, la cui connessione risolve ogni realtà nel senso che ogni realtà è risolta nella relazione che intercorre tra impressioni/idee, la cui regolarità è dovuta alle tre proprietà che appartengono loro – proprietà di somiglianza, contiguità e causalità, e quest'ultima, in modo particolare, rinvia all'esperienza; si legge infatti nel Trattato: «Adamo, anche se le sue facoltà razionali siano supposte dal principio perfetto, non avrebbe mai potuto inferire dalla fluidità e dalla trasparenza dell'acqua che essa poteva soffocarlo o dalla luce e dal calore del fuoco che esso poteva consumarlo. Nessun oggetto rivela mai, per mezzo delle qualità che appaiono ai sensi, le cause che lo producono o gli effetti che sorgeranno da esso; né può la nostra ragione, sena l'aiuto dell'esperienza, effettuare alcuna illazione che concerna realtà o fatti», il che comporta necessariamente che se da una parte la causalità è necessariamente data dall'esperienza, dall'altra alla causalità è necessariamente tolta ogni forma di oggettività e necessità, ma – dice Abbagnano – «se ci fosse qualche sospetto che il corso della natura potesse cambiare e che il passato non servisse di regola per il futuro, ogni esperienza diverrebbe inutile»: a rendere necessari i rapporti di causa/effetto sarà allora l'abitudine, che essendo propria della natura umana renderà la causalità soggettivamente necessaria, che è un altro modo per parlare di contingenza avendo però così l'occasione di poter spiegare come mai crediamo (e reputiamo [= noi esseri umani]) necessari rapporti di causalità, e l'esempio tipico è il sorgere del sole.

Ma perché l'abitudine non può avere un fondamento metafisico? La metafisica ha creduto possibile, anzi doveroso dover fissare determinazioni, determinazioni ad esempio astronomiche, in modo stabile pur avendo dedotto i dati dall'esperienza che, basandosi sulla probabilità, rimane priva di fondamento. L'abitudine e l'esperienza sono i modi in cui conosciamo, quindi la nostra è una conoscenza empirica, non metafisica: la metafisica è un a-posteriori mascherato da a-priori. E, che le probabilità che hanno fondato fondamenti metafisici cambino, questo la metafisica non lo conta. Ma cosa comporta basare la conoscenza sull'abitudine, se non escludere la metafisica (io domani riuscirò a dire a che ora sorgerà, se sorgerà, il sole – predizione, questa, che trascendere l'esperienza), ed escludere la metafisica non è, forse, un'azione anch'essa metafisica? L'empirismo stesso, eliminando la metafisica dal momento in cui non se ne ha esperienza, non fonda se stesso in una metafisica che, pur essendo anti-metafisica, è essa stessa metafisica, poiché, come la metafisica, basa se stesso sull'esclusione di qualcosa di cui non ha esperienza (in questo caso la metafisica stessa)? C'è un di più. La metafisica è nata da un delirio eleatico noto come Uno. L'Uno parmenideo, per intenderci. E questo Uno, il pensiero occidentale se l'è portato appresso più o meno consapevolmente, tant'è che col termine metafisica occidentale si vuole delineare tutta la filosofia occidentale dall'inizio fino, mettiamo, a Nietzsche. Il pensiero platonico, in particolar modo, ha escluso i simulacri, nel senso che li ha relegati come perversioni della verità: in questo senso, dunque, compito della filosofia è smascherare i simulacri per allontanarli dal pensiero e sperarli dalle copie. Si tratta di selezionare una stirpe, di autentificare un'idea – processo che l'ateniese compie attraverso la narrazione mitica, ovvero la rappresentazione di una fondazione (v. mito del carro e dell'auriga in «Fedro») attraverso la quale certificare le copie (termine che rinvia a un'idea di somiglianza, in quanto appunto la copia somiglia interiormente ed esteriormente all'Idea su cui si modella), cioè i partecipanti autentici («Il fondamento è ciò che possiede qualcosa in primo grado, ma che lo dà in partecipazione, che lo dà al pretendente, possessore in secondo grado nella misura in cui ha saputo superare la prova del fondamento. Il partecipato è ciò che l'impartecipabile possiede in primo grado. L'impartecipabile fa partecipare, dà il partecipato ai partecipanti» scrive Deleuze in «Platone e il simulacro», appendice a «Logica del Senso»), detti copie-icone in contrasto con i simulacri-fantasmi, privi di somiglianza all'Idea, quindi non più catalogabili come modello del Medesimo bensì come modello dell'Altro: il catechismo mutuerà questa concezione copia/simulacro quando Adamo e Eva, creati da Dio a Sua immagine e somiglianza, verranno cacciati dall'Eden (dall'esistenza morale all'esistenza estetica, per usare una terminologia kierkegaardiana).

Il rovesciamento del platonismo di cui parlava Nietzsche diventa così un rovesciamento della dialettica icona/simulacro, volto a far riemergere il secondo stando la verità del Medesimo nel proprio essere simulato e nel proprio (continuo) simulare, ma simulare non più nel senso degradato e degradante che gli dava Platone quanto, piuttosto, come unico possibile rinvio all'Idea platonica: nell'eterno ritorno di Nietzsche, il Medesimo è appunto questo, un eterno simulato, per tutti i simulacri il fantasma unico (nella trentesima serie, «Sul fantasma», Deleuze elenca le sue tre principali caratteristiche, ovvero che (1) esso è il risultato di una passione o di un evento, quindi un puro evento, che in risultato esso è (2) «il movimento per cui l'io si apre alla superficie» ma che, però, (3) si distingue da ciò da cui scaturisce, rappresentando l'essenza stessa dell'evento). La scrittura, ad esempio, aspramente criticata («Dunque chi crede di poter tramandare un’arte affidandola all’alfabeto e chi a sua volta l’accoglie supponendo che dallo scritto si possa trarre qualcosa di preciso e di permanente, deve esser pieno d’una grande ingenuità, e deve ignorare assolutamente la profezia di Ammone se s’immagina che le parole scritte siano qualcosa di piú» rimprovera Socrate nel «Fedro») in quanto rinvia a qualcosa che non sta lì nella pagina, diventa, come nell'ultimo romanzo di Joyce, unico mezzo possibile per tornare e/o giungere alla verità, anche in quanto rinvia a qualcosa che non sta lì nella pagina (v. «La farmacia di Platone» di Derrida, per cui la scrittura è per Platone un «farmakon» che potrebbe essere un veleno e nuocere o addirittura distruggere la memoria); tuttavia, il compito che la filosofia si è dato non risale tanto a Platone quanto a Parmenide, essendo infatti l'Uno eleatico una perversione che tolto alla filosofia il Naturalismo che, secondo Lucrezio, dovrebbe avere, poiché suoi attributi non sono tanto l'unità quanto, piuttosto, la forma congiuntiva: essa diventa allora «principio del diverso e della sua produzione» («Lucrezio e il simulacro»), somma infinita che tende a congiungere, ovvero a vivificare i propri elementi uno ad uno, e la lex atomi, dove per atomo s'intende l'oggetto del pensiero formato da minima pensati, si riduce a questo, all'irriducibilità della pluralità di cause in un Uno eleatico: attraverso il «clinamen» (o «parenclisi») gli atomi s'incontrano e formano composti, e questi composti (formati da elementi determinati) sono immersi, oltre che nel vuoto, in un'infinita somma di atomi (ambito determinato), necessaria quando gli atomi stessi si staccano dal composto che formano, creando emissioni di profondità (suoni, odori, gusti...) e simulacri di superficie (determinazioni visuali) che rendono possibile la percezione dell'Altro o all'Altro, percezione necessariamente deviata in quanto non originale (dal pensabile al sensibile, dal sensibile al pensabile), e che può creare l'idea di un falso infinito (quello post-mortem dell'anima) che nell'animo umano genera terrori e angosce e che per ciò il Naturalismo deve smitizzare, demolire: «Alle origini del linguaggio, alla scoperta del fuoco e dei primi metalli sono congiunti la regalità, la ricchezza e la proprietà, che nel loro principio sono mitiche; alle convenzioni del diritto e della giustizia, la credenza negli dei; all'uso del bronzo e del ferro, lo sviluppo delle guerre; alle invenzioni dell'arte e dell'industria, il lusso e la frenesia. Gli eventi che fanno l'infelicità dell'umanità non sono scindibili dai miti che li rendono possibili. Distinguere nell'uomo ciò che fa parte del mito e ciò che fa parte della Natura, e nella Natura stessa distinguere ciò che è veramente infinito e ciò che non lo è: tale è l'oggetto pratico e speculativo del Naturalismo». La filosofia deleuziana, quindi, ha molto di che spartire col secondo Wittgenstein, e in parte anche col primo; vi sono, infatti, due tipi di filosofie, una di tipo estensivo e una correttiva («Tutta la filosofia è critica del linguaggio» sostiene Wittgenstein) che si basa sull'estensiva per trovare la forza di non farla più esistere – una specie di filosofia suicida. E se Kant distingueva tra intelletto e pensiero, l'Alice di Carroll capire cosa c'è dietro lo specchio è la cosa più importante, al contempo estensiva e, più tardi, correttiva, ma cosa si ricerca delle cose se non le relazioni che relazionano le varie cose stando però sempre al di fuori di quelle cose, al di qua e non al di là dello specchio? Un epistemologo degli anni Trenta dirà che «la scienza non ha una filosofia che sia alla sua altezza» del resto, eppure l'esistenza non ha uno scopo, la vita non è una cosa – il vitalismo stesso spinge alla vita, ma l'uomo non procrea per realizzare la vita – e l'uomo razionalizza il mondo attraverso un'esperienza sensibile-materiale che gli dà lo schema logico con cui (poi) razionalizza il mondo tant'è che qualunque esperienza è considerata sotto un'esperienza logica ma la logica non nasce, di per sé, dall'esperienza, anzi la logica è l'esperienza nel modo in cui l'esperienza dà la logica o nel modo in cui l'esperienza è trasfigurata in/da un punto di vista logico: sta qui l'errore teologico, l'errore di Dio – credere in Dio. Perché di Dio non si ha esperienza, dunque dire che esista e/o non esista è sbagliato. La risposta al problema è allo smantellarsi del problema stesso.

E dunque, ecco la filosofia. La filosofia che è critica di. Esiste la realtà? La realtà è una mia impressione, una collezione di impressioni mi dà il reale, ma le mie impressioni non sono la realtà, e la filosofia è psicologia di queste piuttosto che della mente. È appunto critica. Cerca l'errore, lo corregge. E quando si critica (cos'è una recensione se non una critica? Non per niente, la recensione più brutta è quella che idolatra l'oggetto recensito), checché ne dica il DeB, si fa filosofia, ma il colore verde è dello stesso verde sia nel sogno che qui, ora, nella realtà. Dunque qual è la linea di demarcazione, dove sta il confine?

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