"La donna che amo è la mia padrona, è mia madre, è il mio cane, è la mia puttana": questo cantava Paoli in un disco del 1974, "I Semafori Rossi Non Sono Dio".

Il cantautore genovese ha portato un rinnovamento, nella canzone italiana, di un'importanza enorme; a differenza di tanti suoi colleghi contemporanei lui cominciò a cantare del rapporto d'amore in modo estremamente nuovo, "politico" mi verrebbe da dire, perché uno che in pieno femminismo se ne esce con una frase del genere (che io trovo così vera, totale) sta facendo politica e molto di più di un qualsiasi cantautore a caso che sta invocando la rivoluzione, perché Paoli non invoca la rivoluzione, semplicemente la fa: "Il Cielo In Una Stanza" è il canto d'amore che un cliente di una "casa chiusa" dedica ad una prostituta dopo aver consumato, alla maniera di una "Via Del Campo" di De Andrè, solo che quest'ultima è del 1968, la prima è del 1960, non so se mi spiego.

La sua attitudine, estremamente indipendente e libera, che ha espresso sempre nelle sue canzoni, qualsiasi fosse la tematica, mi ha colpito al cuore fin dalla prima volta che lo ascoltai: i suoi testi sono sempre stati letteralmente poesie in musica, le melodie emozionanti e coinvolgenti e la voce incredibilmente sempre più profonda, matura ed espressiva col passare degli anni, tanto è vero che, per sua stessa ammissione, il meglio, nell'interpretazione, l'ha dato da vecchio e non da giovane, basta confrontare un qualsiasi suo pezzo tra i '60 e i '70 e un altro dagli '80 in poi.

Lo incontrai ad un suo concerto, anni fa, gli strinsi la mano, gli feci i complimenti e dopo una divertente parentesi in cui un giornalista gli chiese, vedendolo abbracciarsi con Stefania Sandrelli, "posso fare una foto?" E lui che gli disse qualcosa del tipo "è una cosa che mi rompe un pò le palle ma ok", ebbi una strana sensazione; avevo di fronte un signore che, al di là degli evidenti anni che si portava sulle spalle, possedeva un sorriso e una luce, negli occhi, da ventenne: in questo "L'Ufficio Delle Cose Perdute" del 1988, album precedente a quel "Matto Come Un Gatto" che nel 1991 regalò all'autore un inaspettato successo di massa paragonabile a quello dei tempi di "Sapore Di Sale", "Il Cielo In Una Stanza" e "Senza Fine", c'è tutto l'entusiasmo di questo "uomo piccolo", di questo "vecchio bambino" che va alla ricerca dei suoi vent'anni ma che capisce che per ritrovarli in cambio deve ridare tutto quello che ha, che urla contro l'orrore del razzismo, che sa che non potrebbe sopravvivere senza la sua donna ma che nello stesso tempo dichiara che l'amore è utopia, bugia e che l'importante è una che ci stia, che si rispecchia in Coppi, quell'omino con due ruote contro tutto il mondo e che metterebbe il culo di una puttana francese tra i trofei perché è meglio dei paradisi di Versailles. 

E poi c'è semplicemente un vecchio, che ha visto già tutto, che si ferma vicino al mare con un bambino per la mano e con le loro due anime che finalmente si incontrano alla fine di un viaggio e all'inizio di un altro, in uno dei suoi pezzi migliori che non puoi non portarti dentro per sempre.

Per me Paoli è sempre stato un vecchio saggio, uno da cui andare quando le cose non vanno bene e non sai che direzione dare alla tua vita, sapendo già, in fondo, quale sarebbe stata la risposta che mi avrebbe dato: "le strade sono giuste, anche quelle sbagliate, basta non esser certi, mai. Io non ho certezze ma solo dubbi".

Mi piacerebbe invecchiare come lui e diventare quel vecchio bambino anarchico, pazzo e poetico che voglio continuare a credere sia in ognuno di noi. 

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