Devo confessarlo. Questo disco (che è uno di quelli di maggior successo di Paoli, uno dei suoi dischi-manifesto già dal titolo) è uno di quelli che ho sempre ascoltato di meno rispetto ad un “L’ufficio delle cose perdute”, a un “Il mio mestiere” o a un “King Kong”; almeno fino a qualche mese fa. Complice anche quella droga chiamata “Debaser” che mi obbligava moralmente a scriverne (in realtà il mio nick deriva anche dal fatto che sono un gattaro incallito e che mi rispecchio spesso in alcuni loro atteggiamenti), mi misi a riascoltarlo e capii.

Innanzitutto capii il perché di tutto quel successo: Paoli qui è riuscito a trovare il classico equilibrio tra profondità dei contenuti e accessibilità, cosa che, ad esempio, un disco “estremo” come “il mio mestiere” non cercava e non voleva. E poi capii che fu il classico “disco giusto al momento giusto”: era il 1991, in giro per fortuna si cominciava a respirare un'aria diversa rispetto a certi anni ’80 e la gente era ben disposta ad acclamare per la seconda volta un autore anticonformista, impegnato ma non politico nel senso del cantautorato italiano degli anni ‘70, spigoloso, spesso assai di poche parole (quante volte fu definito scostante rispetto a tanti suoi logorroici colleghi) ma estremamente affascinante, anche per tutto questo.

Prendiamo per esempio le tre canzoni “simbolo” del disco e un’altra meno conosciuta, ovvero, rispettivamente, “Quattro amici”, “Matto e vigliacco”, “Un sorriso gratis” e “Saremo una canzone”: il sano idealismo giovanile, la sacrosanta voglia di cambiare il mondo che con gli anni in parte svanisce ma fortunatamente non per tutti e che, generazione dopo generazione, per fortuna, rinasce e si rinnova continuamente, il violento rifiuto di qualsiasi tipo di guerra decisa da pochissimi “arbitri in panchina che non giocano la partita e la decidono loro”, l’importanza di non isolarsi se non si vuole marcire perché “chi crede di salvarsi non si salva mai da solo, se non ha compagni la tua strada non ha sbocchi al sole” (qualcuno ha detto “The Wall”?) e l’importanza che può avere un semplicissimo contatto umano anche con un estraneo per farti rinascere (piangendo) dalla melma in cui stavi nuotando fino a un attimo prima sono i contenuti dei pezzi in questione che si fanno canticchiare in modo estremamente semplice nonostante l’importanza, la serietà e la profondità delle tematiche.

Paoli, dopo anni passati ad essere sempre e comunque “contro”, aveva semplicemente capito che, per far arrivare la sua poetica a tante persone doveva veicolarla attraverso testi semplici e immediati e musiche accattivanti, essere allo stesso tempo “contro” e “con”, come disse lui stesso, senza rinunciare a una briciola della sua dignità artistica (processo in realtà già iniziato con “La Luna e Il Sig. Hyde” su cui dosankos ha fatto una splendida recensione), anzi, se mai guadagnandone ulteriormente, perché risultare complicati è semplice, mentre risultare semplici è complicato; la semplicità è un dono che hanno un numero limitato di artisti, in qualsiasi campo: in fondo, verrebbe da dire, questo è quello che Paoli ha fatto in quasi tutta la sua carriera, spesso anche in modo migliore nel senso meramente artistico e qualitativo della sua proposta, ma in “Matto Come Un Gatto” è riuscito a trovare, sostanzialmente per caso, la forma, la comunicatività, la sintesi e il momento storico perfetto per arrivare nuovamente al grande pubblico (“Ai concerti vedevo ragazzine che urlavano” disse un incredulo Paoli durante un’intervista).

Sarà un momento, perché già con il successivo (splendido) “King Kong” le vendite diminuiranno parecchio fino a far tornare Paoli, disco dopo disco, in quello strano limbo di riconosciuto artista fondamentale per il cantautorato italiano senza mai avere però la sovraesposizione mediatica e il successo di tanti altri: forse semplicemente proprio perché del successo e dell’acclamazione della folla, a uno come Paoli (che tentò il suicidio, ricordiamolo, all’apice della sua carriera nei ’60 e che vive con un proiettile conficcato in corpo da 40/50 anni perché sarebbe stato estremamente pericoloso tentare di estrarlo, mentre lì dov’era non gli avrebbe dato nessun fastidio) non è mai importato un’emerita ceppa.

E allora son tornato di corsa sul mio ramo, solo, sulla mia pancia a scrivere canzoni, se la gente le vuole le canto volentieri, se non le vorrà più le canterò agli amici, […] al mio amore” (Paoli)

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