Una mattina mi sveglio e ho voglia di rovistare per l’ennesima volta fra i dischi di mia madre, tutti (finora) rigorosamente di musica classica. Ma è con immenso stupore che scopro, seminascosti alla vista, una manciata di vinili di musica italiana varia, su cui lei avrà consumato (chissà quanta) parte della sua adolescenza; il suo nome scritto a penna in piccolo sulle copertine di “Io Sono Nato Libero”, “Zombi di tutto il Mondo Unitevi”,”Via Paolo Fabbri”, “Radici”, perfino Gli Zingari Felici, lo confesso, mi ha emozionato un bel po’ (ma come- penso e ripenso fra le altre cose- sono due lustri che mio padre vota Berlusconi e in casa c’è Gli Zingari Felici? – qualcosa proprio non quadra). Ma la mia attenzione la cattura subito un disco tutto bianco e un po’ logoro, la scritta “I Borghesi” in elegante corsivo, di Gaber.

Quel disco mi dice qualcosa, mi ricorda sensazioni indefinite su cui, mentre mi rigiro la copertina fra le dita, leggendo le tracce, mi interrogo per un pò, poi, frustrato, decido di metterlo su. La voce di mia madre che ciabatta in salotto turba quegli amletici istanti: “quando eri piccolo ascoltavo a ripetizione questa canzone, tu un giorno mi hai chiesto: ma che sono i 'bogghesi'? e non sai quanto ho riso”. Nel frattempo, mentre alle sue parole rispondo con un mentale “boh”, è partito il disco: “quand’ero piccolo-taratarataratà-non stavo mica bene- taratarataratà-..”. Ed ecco, l’epifania è compiuta, ricordo tutto d’un blocco, io a 6 o 7 anni che passo ore a sentire una canzone, “I Borghesi” appunto, che non potevo capire ma che stranamente mi rapiva. Alla mia mente bambina la voce di Gaber era quella del narratore bislacco di una filastrocca stravagante e stupidina che parlava di porci, di un bimbo che vedeva i mostri, di un maestro di scuola. Era magica, scanzonata. Mi rattristava da morire invece, fino alle lacrime, il valzerino melodrammatico di “L’Amico”, una delle canzoni del disco a cui sono rimasto più affezionato.  L’”Uomo Sfera” poi mi inquietava, immaginavo un gommoso grassone che rimbalzava per le strade,ma ovviamente sentivo che il tono della canzone non era per niente allegro( la declamazione, nella parte finale dell’uomo-sfera, oggi mi ricorda, allo stato embrionale, quella di “Se Fossi Dio”).

Gli altri pezzi del disco li ho scoperti solo oggi: sull’onda di quest’entusiasmo retroattivo ho riascoltato tutto il disco e l’ho trovato stupendo, una bella fusione fra la nascente esperienza teatrale del Nostro e la forma canzone con cui si era da sempre cimentato. I temi della sfibrante esperienza di tutti i giorni, della “routine dei sensi”, di un naturale bisogno d’evasione dai rapporti e dalle cose (“Evasione” è proprio il titolo di una canzone) forse ancor più mediocre della quotidianità da cui vuol fuggire, sono il perno di tutti i brani eccetto “La Chiesa si rinnova” (in cui comunque tutto questo c’entra comunque in senso lato). E Il disagio del quotidiano, cantato con tanta sincerità e celato nella solita disincantata, disarmante ironia, Gaber lo condensa nella splendida “Un Gesto Naturale”: qui il peso della lotta per la vita, che l’uomo ha appreso pian piano, si trasferisce nei gesti più semplici, di ogni giorno e di ogni momento,come parlare,respirare o sorridere. E’ la canzone più bella del disco, e anche l’ultima. Ciò di cui abbiamo bisogno più di ogni altra cosa penso che questo album ce lo dica implicitamente (e che in tutta la sua carriera Gaber non smetterà, più o meno implicitamente, di ripeterlo): è l’amore, proprio quella parola censurata, non detta, alla fine del ritornello di “Ora che non son più innamorato”.

E i borghesi?  probabilmente sono già uno di loro ….....ma mi tengo ancora ben strette le mie “strane allucinazioni”.

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