Benemerita davvero, questa tal casa discografica MBO (a me per il resto ignota) che pochi anni fa, dopo avere ottenuto la relativa licenza, ha deciso di ristampare in versione anastatica, peraltro aggiungendovi sette bonus tracks gaberiane alquanto eterogenee rispetto alla compattezza, alla pregnanza ed alla profondità delle dodici tracce originali, quest'album quasi concept, uscito in origine nel febbraio 1968 per la RI-FI (con la quale, sino a quel momento, l'allora 29enne Giorgio Gaber aveva inciso unicamente alcuni 45 giri; questo, in effetti, resterà l'unico suo 33 giri di inediti uscito per la RI-FI).
"L'asse d'equilibrio", a mio avviso, costituisce la migliore smentita a tutti quei commentatori raccogliticci ed improvvisati dell'ultim'ora che, nei mille articoli celebrativi apparsi all'indomani della morte di Gaber, hanno ripetuto ad nauseam - forse orecchiandola di terza mano e poi scopiazzandosi a vicenda? Chissà ... - la stantìa ed inveritiera affermazione secondo cui soltanto l'avvio del teatro-canzone nel 1970 avrebbe rappresentato il netto spartiacque fra il Gaber "disimpegnato" - popolare chansonnier romantico, garbato intrattenitore televisivo di successo (ancora nell'autunno di quello stesso 1968 egli fu chiamato a condurre, in coppia con la moglie Ombretta Colli, un programma leggero chiamato "Giochiamo agli anni ‘30") nonchè simpatico cantore umoristico di una Milano un po' cialtrona in via d'estinzione - ed il Gaber "impegnato".
Dire una cosa simile significa - come minimo - essere un tantino troppo manichei ed assolutisti nel tracciare linee di demarcazione e confini vari nell'ambito della carriera di un artista di tale livello e di tale complessità espressiva. Probabilmente significa anche non avere mai ascoltato quest'album, denso di perle per lo più misconosciute, che ci dà la misura di come in Gaber fossero sempre esistite non soltanto certe tematiche ma anche una qual certa urgenza - sincera e partecipe - nel volerle esprimere, senza farsi troppo intimorire dalla paura di sporcare quella sua solida immagine di bravo ragazzo posato che piaceva a tutti (si riascoltino anche certi suoi pezzi anni '60 più risalenti nel tempo, come "Le nostre serate", e "Il coscritto", peraltro osteggiatissimi nella RAI dell'epoca, ove il Gaber-presentatore ebbe l'ardire di cantarli).
Fra l'altro si noti che qui non c'era ancora dietro le quinte un Sandro Luporini con il quale scrivere a quattro mani i testi (otto dei quali - qui - sono farina esclusiva del sacco di Gaber mentre i rimanenti quattro vedono quale loro coautore un altro "irregolare" dell'epoca, Herbert Pagani).
Parlo di "album quasi concept" - in un'epoca in cui i 33 giri erano per lo più mere raccolte di singoli già usciti in 45 giri - perché un filo conduttore nel disco c'è, ed è dato quantomeno dalla totale sincerità ed intensità che Gaber qui ci mette nel cantare - di volta in volta - le contraddizioni, le ansie, i limiti e le debolezze dell'individuo singolo, in più occasioni visto come un viandante impegnato in un faticoso ed incerto cammino lungo una strada accidentata ("Un uomo che dal monte", "La vita dell'uomo"), oppure la meschinità e l'iniquità di certe scelte dettate dall'arrivismo, dal consumismo e dall'aridità ("Eppure sembra un uomo"; "La corsa"; "Immagini"), ovvero l'ipocrisia delle solo apparenti "rivoluzioni" (?) - all'epoca propagandate come tali - scaturite nel cattolicesimo a seguito del Concilio Vaticano II ("La Chiesa si rinnova"), o la vacuità irritante del bla-bla-bla incessante che quotidianamente ci avvolgeva e ci avvolge ("Parole parole"), o la difficoltà del vivere in coppia su basi realmente paritarie e di reciproca stima ("L'orologio", canzone poetica d'impianto assai moderno e di rara bellezza, che narra d'un amore maschile già ampiamente disilluso eppure ancora succube), o le difficoltà - ma anche le soddisfazioni - insite nel voler essere un "irregolare" non incasellabile a priori e voglioso di astenersi dai compromessi ("L'asse d'equilibrio") od ancora il lacerante contrasto interiore - pur così brillantemente padroneggiato, all'epoca, da Gaber stesso - tra il "dover fare per forza il pagliaccio" per piacere alle masse ed il prepotente desiderio di poter cantare, invece, sempre in piena libertà, porgendo alle suddette masse anche temi scomodi, tristi o - semplicemente - meno piacevoli ed accattivanti (la splendida e chiaramente autobiografica "Suona chitarra", che Gaber comunque riuscì a cantare anche in TV, pur se in pratica, con essa, il cantautore esprimeva tutto il suo malessere proprio verso un certo tipo di apparizione televisiva, all'epoca - e forse non solo all'epoca - pressoché obbligatorio per chi faceva musica leggera):
"Se potessi cantare davvero
canterei veramente per tutti
canterei le gioie ed i lutti
e il mio canto sarebbe sincero.
Ma se faccio così io non piaccio
devo fare per forza il pagliaccio.
E allora suona chitarra
falli divertire
suona chitarra
non farli mai pensare
al buio, alla paura
al dubbio, alla censura
agli scandali, alla fame
all'uomo come un cane
schiacciato e calpestato (...)"
Non è un caso che più d'uno fra questi brani ("Eppure sembra un uomo" ma anche, naturalmente, "La Chiesa si rinnova": ogni volta che la ascolto mi sovvengono, inevitabilmente, le annunciate incredibili controriforme ratzingeriane, a cominciare dalla messa in latino ricordata nella canzone ...) sia poi entrato a fare parte integrante degli spettacoli gaberiani di teatro-canzone post-1970.
L'atmosfera da cui è pervaso l'intero album (magnificamente cantato, al solito, da Gaber con la sua voce rotonda, calda, profonda ed intonatissima come poche, compresi gli "interpreti puri", per non parlare dei colleghi cantautori) può forse essere adeguatamente resa dalle due strofe finali del brano "Immagini":
"(...) Una chiesa, una grande chiesa
piena di fregi in oro zecchino
dove una folla umile e triste
inginocchiata
prega qualcuno
che non la sente
o che non esiste.
Un cimitero, un grande cimitero
dove le tombe non sono uguali
dove si ergono gran monumenti
in una corsa
che non ha sorte
e che continua
anche dopo la morte".
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