Quando ti imbatti in un intelletuale così enormemente anticonvenzionale, come Giorgio Gaber, lo fai sempre con una sorta di timore reverenziale, con un senso di inadeguatezza e di squilibrio culturale che ti conduce, volente o nolente, a un lavoro introspettivo e a una indignazione parossistica senza precedenti. "Polli d'allevamento" è un album datato 1978, registrato al teatro Duse di Bologna, con la partecipazione straordinaria di Franco Battiato (arrangiamenti) e la consueta presenza di Sandro Luporini nella scrittura dei monologhi. Questo, della coppia Gaber-Luporini, è di gran lunga uno dei lavori più provocatori e dibattuti, in quanto prende di mira il movimento giovanile di quegli anni accusato, senza mezzi termini, di velleitarismo e conformismo. In Gaber questo elemento era predominante; non cercava l'applauso facile, il consenso immediato, il populismo buttato in piccole dosi (anche se una delle critiche principali a lui rivolte è proprio questa), bensì l'arrovellamento interiore, la riflessione più logorante e profonda come toccasana per preservare la moralità. Era uno scudisciatore di coscienze, una voce pasoliniana di una questione privata irrisolta e che stava prendendo il sopravvento. Lontanissimo da quella retorica invasiva, da quella tenerezza bucolica alla Battisti maniera, Gaber in ogni spettacolo, e album, metteva alla prova il suo pubblico. Anche in questo. E' un concentrato di sorrsisi e lacrime, di indignazione e speranza, di incazzatura e forte senso di appartenenza. Già, l'appartenenza, quel concetto che lui così tanto detestava perchè "l'appartenenza vuol dire avere gli altri dentro di se", non sapeva, o forse sì, che per molti è stato proprio quella cosa lì. Quando ascoltavi "Quando è moda è moda", in te nasceva un senso di odio profondo verso di lui. Perchè faceva crollare qualsiasi certezza, anche le tue, perchè poneva il dubbio al di sopra di qualsiasi dogmatica interpretazione della vita, della politica, della società. Però, al contempo, lo amavi smisuratamente perchè ti aveva regalato un altro punto di vista, un'altra direzione dalla quale scorgere orizzonti nuovi. E poi "Il suicidio", una contaminazione di emozioni e sensazioni che ti lasciavano sgomento e inerme. C'era l'ilarità e una struggente narrazione poetica e letteraria, c'era il ridicolo e la precaria condizione umana all'interno di una società sempre più liquida, c'era una fine già scritta e una tutta da scoprire "c'è una fine per tutto, e non sempre è la morte". Gaber è tutto questo e "Polli d'allevamento" è il principale megafono di ciò che lui era: un intellettuale disorganico, un precursore della modernità, un "gabbiano con l'intenzione del volo". Non ha fatto altro che entrare nell'olimpo delle coscienze individuali, capirne il disagio e tramutarlo in arte. Chiudo come avrebbe fatto lui, con una sarcastica malinconia: "non ho paura dell'italiano in se, ho paura dell'italiano che è in me".
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