Un intero decennio tutto d'un fiato, a calcare palchi di colmi teatri, diede l'opportunità a Giorgio Gaber di analizzare con dovizia e meticolosità ogni aspetto e difetto, sia quelli più introspettivi, che quelli più evidenti, ma soprattutto quelli umani della creatura pensante italica che negli anni ‘70 interloquiva, si confrontava, poi lottava e imprecava, e spesso sognava.
Ma cosa sognava in realtà e cosa di concreto aveva ottenuto quella creatura alla fine di quel tormentato decennio? Perché ogni volta, mese dopo mese, anno dopo anno con il vento in poppa, emergeva quell'ostinata convinzione di avercela quasi fatta a cambiare il mondo? Perché quello straordinario progetto di coscienza comune aveva condotto milioni di giovani all'illusione più copperfieldiana del ‘900?
Paura? Vergogna di ostentazione? Oppure qualcuno stava esagerando e si stava cominciando a valutare la storia con maggior senno? Era il momento di fermarsi davvero? Come dire, "OK fino ad ora si è giocato, però adesso basta." Gaber s'infervorò non poco quando due anni prima nel precedente "Polli d'allevamento" accusò le masse pseudorivoluzionarie e soprattutto i giovani, di lassismo, di mancanza di "palle" e di poca coerenza con ciò che il '68, fonte di un rinnovamento globale di ogni prospettiva, aveva loro dato in custodia.
Ed eccolo "Mister G" nel 1980 esordire nel neonato decennio con "Pressione bassa", il primo lavoro in studio a 10 anni da "Sexus et politica", dopo le "zingarate" (per dirla alla Monicelli) face to face, con la carne viva e premurosamente attenta ad ogni provocazione dell'istrione meneghino.
Dopo la rinuncia al cambiamento, è il momento dello sconforto, della bassa pressione, ovvero dell'incalzante depressione e marasma che andava a colmare quel vuoto lasciato dalla mancata realizzazione dell‘utopia. Con una strozzata armonica e una svogliata chitarra, ci si capacita con rassegnazione al ritorno forzato della monotona normalità, "sdraiato mi sento pesante e penso alla gente, che compra le paste che ascolta la Messa, anche il mondo ha la pressione bassa." Fa eco il brano "Non è più il momento" in cui Gaber mette una pietra definitiva alla stagione delle idee e del confronto "Per tenerci in vita ci bastava una cazzata non si sa perché improvvisamente non è più il momento per niente". e si appresta ad annichilire con garbo la generazione di eterni sognatori: "Razza già finita senza neanche cominciare, razza disossata già in attesa di morire."
Scherzando con i santi è il turno di un predicatore controcorrente dei giorni nostri, che se la prende con gli stereotipi del giorno d'oggi e viene rinchiuso di conseguenza in cella, reo di infastidire il "normale" pensiero comune condiviso da tutti, dichiarando che pure Gesù, se si catapultasse in mezzo a noi, risulterebbe incompreso e rischierebbe di finire anch'esso in galera.
Subentra talvolta a sprazzi, in un trasognato contesto, parallelo al presente sfasciato e privo di riferimenti, "L'illogica allegria" che Gaber non sa spiegarsi, ma si rende conto in tutto quel vuoto, di poter avere il diritto a nutrirsi in alcuni altalenanti momenti di una fetta di serenità, pervaso pacificamente da un senso di beata solitudine.
Gaber analizza ancora i rapporti umani e interpersonali come ci ha sempre abituato, ponendosi ancora quesiti, ma in maniera più ponderata e mai turbolenta, come nella gradevole e lenta ballata, in cui osserva lo zio fascista alle prese con i piccoli gesti quotidiani, come le carezze ai nipoti o le rose da innaffiare e non si spiega perché un uomo così dolce, avesse avuto in gioventù così tanta meschinità, da commettere con bòria certe inspiegabili nefandezze, giungendo così alla conclusione di trovar d'innanzi a sé un uomo con "il cuore troppo tenero e la testa troppo dura", o raccontandoci del tortuoso rapporto uomo-donna nelle precedenti generazioni, di quel "dilemma" (come cita il titolo) e di quel senso di un arcaico stare insieme, sovrastando con i sacrifici ogni difficoltà e continuando, nonostante la reciproca morte del sentimento, a costruirsi un domani per il bene della famiglia. Infine illustra "Una donna" nel suo essere più naturale e spontaneo, in quell'essenzialità di rendere vivace l'uomo e di sapersi ancora emozionare, ponendo anche l'altra faccia della medaglia e spiegandoci che nel caso contrario in cui le sue inibizioni venissero meno, vivremmo dentro "un mondo di donne talmente belle da non avere bisogno di affezionarsi alla menzogna del nostro sogno".
C‘è anche il tempo per prendersi in giro in un simpatico siparietto metropolitano, nel quale un uomo mite e gentile è costretto a giocarsi un appuntamento galante. "Il contrattempo" è dovuto a una brutta aggressione per strada, ma alla fine la vittima, nonostante le botte subìte, si compiace per la sua reazione "poco sportiva" ai danni degli energumeni, incoerente con il lato pacifico del suo carattere.
Le musiche a tratti composte da melodie delicate, scorrono tranquille e posate per tutto il disco creando un atmosfera di distensione e a tratti di spensieratezza.
Un Gaber meno pretenzioso questo di "Pressione bassa", un punto di distacco riflessivo e pacato, la breve quiete dopo il lungo temporale e prima dell'imminente giudizio universale di "Io se fossi Dio" e dai caotici "Anni affollati" alle porte.
Abituati alla sferzante e provocatoria tenacia nelle esibizioni dal vivo, si resta un po' disorientati nell'ascoltarlo alle prese con una valutazione ragionevolmente tranquilla del mondo circostante. Resta nella sua complessità un ottimo lavoro da rivalutare.
Mi prendo la briga di elencarne le tracce, essendo questo album, ormai quasi introvabile e purtroppo fuori catalogo da diverso tempo; in via eccezionale lo si può ascoltare in pillole nei vari spettacoli teatrali successivi o in qualche raccolta.
Gaber è Gaber, prendere o lasciare.
LATO A:
Pressione bassa
La ballata dell'immaginario R.M., P.B. e altri
Ritratto dello zio
Non è più il momento
LATO B:
L'illogica allegria
Una donna
Il contrattempo
Il dilemma
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