L’hanno dato al cinema solo per tre giorni, questo docufilm su Enzo Jannacci.
Uscito a Venezia e poco amato dalla critica anche per il sottotitolo un po’ scontato, il film è fatto di testimonianze e aneddoti, spezzoni di teatro e tv, di ricordi dei suoi amici e colleghi e del figlio Paolo e persino di qualche inedito.
Non una vera e propria biografia ma una esplorazione del suo mondo artistico e personale.
Per chi lo ama è un caleidoscopio imperdibile di canzoni, duetti, battute, sguardi e del suo essere unico e inimitabile. Ma io sono di parte e pazienza.
Vero è che Verdelli, il regista, è napoletano e a qualcuno la cosa ha fatto storcere il naso. A me no.
La Milano di Jannacci non è solo la Milano del vecchio tram con cui ci porta in giro, è anche il resto del mondo, con le sue miserie e le sue allegrie, con l’ironia e il disincanto che il suo genio unito alla sua umanità riusciva e riesce a trasmettere.
Magari a qualcuno non sarà piaciuta la presenza di Vasco Rossi a cui Enzo scrisse una divertente lettera, ma, tutto sommato, con la complicità a posteriori di un Jannacci che si racconta, il regista riesce anche a toccare le sue corde più intime, ci fa intravedere l’uomo inscindibile dall’artista, quello che racconta gli ultimi, gli esclusi, i diversi. Lo fa con personaggi ormai famosi come Vincenzina, l'Armando, il palo dell’Ortica o Quelli che…, personaggi che si muovono insieme a lui, tra canzone popolare e cabaret, rock’n’roll e jazz, cinema e teatro.
Ma quello che più spicca è la sua costante inventiva musicale e linguistica, l’aver saputo innovare la canzone popolare anche attraverso la collaborazione di gente come Gaber, Fo, Strehler e tutti i suoi amici dello Zelig inteso come cabaret e di cui non sto a fare l’elenco tanto li conoscete tutti.
Insomma la faccio breve. Per me un bellissimo ricordo ben fatto e godibile. Da vedere.
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