Una topolino amaranto viaggia placida su una stradina immersa nella campagna astigiana in un’assolata giornata primaverile, sotto, le note di un vecchio sparring partner…
Così si apre il documentario su Paolo Conte – Via con me diretto da Giorgio Verdelli e presentato come evento speciale alla Biennale di Venezia, è passato rapido e discreto nelle sale il 28 29 e 30 settembre 2020.
Eravamo 4 gatti l’altra sera e andare via con Paolo è stato un vero piacere, sembrava di viaggiare su una Rolls Royce e invece eravamo su una vecchia topolino dai siedimi accanto non chiedo di meglio.
Le incursioni della voce narrante, Luca Zingaretti, ci accompagnano in 100 minuti in oltre 50 anni di storia della musica italiana attraversata da un gigante, l’avvocato enigmista, pittore e già vibrafonista, il magnifico e magnetico Paolo Conte.
Davvero tanti i personaggi intervistati, da De Gregori a Benigni da Jannacci junior a Caterina Caselli, suo fratello, Renzo Arbore, Vinicio Capossela, Servillo (quello che canta) i francesi (che stavolta non si incazzano anzi lo venerano). C’è perfino Jovanotti il quale ammette che per scrivere un verso come c’è un po’ di vento, abbaia la campagna, c’è una luna in fondo al blu, impiegherebbe 300 vite.
L’ammirazione e il rispetto nei confronti di questo nostro grande artista, sono totali. Ce ne fosse stato uno tra gli intervistati che abbia detto mezza parola storta. Perfino De Gregori, notoriamente borioso, mentre è intervistato è a capo chino ed ha un’espressione imbarazzata. Racconta di quando durante Banana Republic fecero una cover di Un gelato al limon. Un giorno si incontrarono e Francesco temeva una ramanzina del Conte in quanto avevano proposto una versione di Un gelato al limon rockettara assai diversa dall’originale. Ma Paolo Conte non rimproverò De Gregori, anzi lo ringraziò per aver fatto conoscere a tanta gente un suo brano.
Tanti sono gli aneddoti e gli episodi raccontati dagli intervistati e dallo stesso Paolo Conte il quale racconta anche una barzelletta jazz su Art Tatum e Chick Corea.
Mi ha colpito particolarmente uno spezzone di una trasmissione televisiva RAI fine anni 70. C’è Paolo al pianoforte, conduce Renzo Arbore, ospite Monica Vitti (bellissima). Si vede bene che a Paolo piaccia Monica la quale è un po’ sulle sue e ben più diva del discreto avvocato il quale però, le dedica una breve canzone al piano e Monica, in pochi secondi è totalmente sedotta dal nostro eroe e quasi diventa una bambina vergognosa mentre tenta di accompagnare, cantando e conoscendo a malapena le parole di questa canzone, Paolo Conte.
Un altro episodio che mi ha colpito è stato quando scrisse Azzurro. Lesse il testo alla madre, quindi ancora doveva uscire, ancora doveva diventare l’inno della musica pop italiana e l’inno del lockdown. La madre, dopo aver ascoltato le parole, si mise a piangere. Il testo di Azzurro, verrà messo nella tomba della madre quando ella morirà.
Oggi è vecchio Paolo, ha più di 80 anni. Capelli bianchi, una maschera di rughe, le ha sempre avute. I suoi occhi azzurri non sono più vispi ed incisivi come un tempo ma quasi più chiari, acquosi ma guai a togliergli caffè e sigaretta.
Potrei scrivere tante altre cose ma mi sembra inutile, davvero, o forse semplicemente non ne ho voglia. Vi posso solo dire che l’ammirazione ed il rispetto che ho nei confronti di Paolo Conte, come artista e come uomo sono totali. Non solo ascoltando la sua musica ma anche ascoltando le sue parole durante una semplice intervista ho l’impressione, semplicemente, di essere al cospetto di una persona superiore, ad esser blasfemi e “necessariamente” esagerati, di essere di fronte ad un semidio.
Ho sempre voluto che la gente possa ricordarmi per la mia musica. Da qualche anno però, sentendo tanta gente che ama anche i miei testi, allora vorrei essere ricordato anche per i testi …e per il kazoo.
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